Una “Sacra Rappresentazione”
 











Ci sono le tre Marie velate come prefiche, e al centro la Vergine che accorata si rivolge a Dio padre con lo stesso fervore di ogni madre dolente che sta per perdere il figlio, ma qui c’è la tortura che lo strazia e sulla quale espira lentamente la vita a rendere ancor più disperata la povera donna. Di lui rievoca i meriti e i miracoli.
Lo fa partendo dal prodigio della maternità nel suo corpo immacolato, dal latte “vergine et nectu” con il quale lo ha nutrito, da quella croce sulla quale sta infisso tra due ladroni, lui che da vivo ridava sanità ai malati che gli si presentavano, che moltiplicava i cinque pani perché tutti se ne saziassero. La doglianza inconsolabile si ammorbidisce nella consapevolezza della missione consolatoria della sua santa resurrezione. E’ questo un “Pianto di Maria”, testo anonimo in volgare siciliano, inserito ne “La sposizione del Vangelo della Passione secondo Matteo”, datato 1373, scelto come incipit di una “SacraRappresentazione” che il Teatro dell’Opera di Roma ha presentato nella Chiesa di Santa Maria in Montesanto, più nota come la Chiesa degli Artisti, e prodotto in collaborazione con il Vicariato di Roma e il Festival “Orvieto Musica e Cultura”. Lo spettacolo dal titolo “La Resurressioni” (1418 -1434), firmato da Marcu di Grandi, unica Sacra Rappresentazione del XV secolo, è un’ ampia composizione in versi, per lo più endecasillabi, con didascalie che si configurano come indicazioni di regia, e certamente è una interessante scoperta che, unita al bel lavoro di ricerca filologica e di collazione messo a punto da Filippo Arriva, che ha curato anche l’adattamento drammaturgico, dà conto di una realtà teatrale quasi del tutto sconosciuta.
Arriva, partendo dai circa 900 versi iniziali, riduce di quasi la metà il documento, rendendolo agile e fruibile e mette accortamente in rilievo la valenza dell’opera che racconta con genuina poeticità la morte e la resurrezione di Cristo soprattuttodall’ottica di coloro che gli sono accanto, i discepoli, lo speziale, ed altri, dando voce inizialmente a Maria Maddalena mentre va in cerca dell’unguento per ungere il corpo del Cristo, dopo la deposizione. “La Resurressione” è un esempio prezioso di volgare siciliano, ovvero dell’antenato del nostro idioma, colto nel momento di passaggio dal latino a quello che, attraverso la mediazione di un Cielo d’Alcamo (ad es.) e della Scuola Poetica siciliana, giunge in Toscana dove si formalizza lingua con Dante, Petrarca e Boccaccio. E’ anche un monumento linguistico e drammaturgico di vivo interesse, filiazione di quei Tropi nati dal Vangelo come mezzo di diffusione della Fede, in un momento in cui si sentiva il bisogno di rivolgersi alla realtà più che ai simboli. Rinascita e fluorescenza e ricerca di linguaggi espressivi comuni abbattevano le frontiere, sostenendosi e sollecitandosi per mettersi congiuntamente al servizio del Bello. Le magnifiche architetture, le arti visive e plastiche equelle della parola avevano ripreso vita e consistenza dopo la grande paura della fine del mondo che doveva spazzare tutto allo scoccare dell’anno Mille.
Il teatro, mai veramente morto, trova spunti significativi negli episodi narrati dai Vangeli. Ed è proprio nei Tropi di Saint-Martial di Limoges che si può trovare il primo schema della “Sacra Rappresentazione”, ovvero la teatralizzazione della morte di Gesù. Che si è potuta apprezzare a Roma in una chiesa davvero gremita ad opera di una compagnia di 11 attori, fra i quali citiamo solo, ma lo meriterebbero tutti, Riccardo Petrozzi (Christu), Margherita Patti(Maria), Antonella Schirò (Maddalena), Stefano Onofri (Thomasius) e Franco Sciacca(Petru) . La regia di Camillo Sanguedolce Bumbica, attenta a creare le atmosfere mistiche-popolari e popolareggianti, non si avvale di scene, se si escludono cupole, minareti, palme creazioni in ceramica invetriata di Giacomo Alessi e della scuola di Caltagirone, disseminate qua e là lungo lanavata e prossime ad una pedana ricoperta da un reticolo di legno sulla quale gli attori recitano e dalla quale si proiettano raggi di luce, verde, dorata o rossastra e fumi che vanno a definire pittoricamente i tableaux vivants nei quali si posizionano i personaggi.
Ecco allora che magicamente rivive Antonello da Messina e la sua pittura, lo fa nelle fogge degli abiti, nelle vivezze dei lineamenti siciliani antichi, fisionomie terragne e naturalissime, così simili a quelle che si incontrano soprattutto nei paesi dell’interno dell’isola, nei colori di una tavolozza che privilegia i blù, i rossi, gli ocra e le loro gamme per costumi creati assieme ai pochi altri elementi scenici da Marina Roberti. Lo spettacolo vive del piccolo Ensemble proveniente dall’orchestra del Teatro dell’ Opera, del violoncello di Andrea Noferini, dell’arpa di Agnese Coco, del flauto di Carlo Enrico Macalli, e dei magnifici vocalizzi del mezzo soprano Marzia Zanzonzini che segue lo spartito messo a punto daMario Modestini utilizzando brani di Sigismondo d’India (1580 ca-1629 ca) e di Emanuele Rincon d’Astorga (1680 -1757).Franzina Ancona









   
 



 
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