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È da tempo che i DVD venduti nelle edicole offrono la possibilità di vere e proprie retrospettive cinematografiche. E il caso, in queste settimane, della serie delle sei pellicole intitolate a "Rocky" (S.Stallone) allegate ad un noto quotidiano romano. Viene rilanciato, così, al grosso pubblico uno dei famigerati "campioni d’incasso" che in passate stagioni, ha avuto numerosissimi fans, o meglio tifosi dato il tema trattato (la boxe targata USA). Al centro della prolissa saga si situa, appunto, la figura di un pugile dilettante di Filadelfia che sbarca il lunario come galoppino di un usuraio e aspira a sfidare il campione dei pesi massimi. Il suo idolo è Rocky Marciano la cui fama sogna di uguagliare. Intanto, povero com’è, è costretto, per allenarsi, ad usare quale punching ball, un quarto di bue di un amico macellaio. Notevole successo riscuote nel 1976 questo prototipo costruito con una certa abilità dal regista J.Avildsen. Egli sa curare i contorni ambientali della vicenda e, soprattutto, tenere a bada le esuberanze del mattatore Stallone. Quando, però, nel seguito dei sequel, questi avocherà a sè le molteplici mansioni di interprete e regista e sceneggiatore, il tasso di credibilità delle storie narrate farà un balzo in giù. Verrà fuori il solito "All American boy" dedito ad un agonismo eroico quanto iperbolico che svela una poliedrica presunzione nell’autore (se si pensa soltanto a suoi flop come attore di teatro ). È sintomatica la reazione di un critico avveduto, G.Grazzini, costretto, infatti, ad annotare: "in lui solo un fisico imponente riesce a farsi perdonare la fredda faccia da bullo.. e certi manierismi gestuali”. Del resto sarebbe bastato un rapido confronto col Robert Ryan di "Stasera ho vinto anch’io" (di R.Wise) o con la sofferta umanità di un De Niro in "Toro scatenato" per una puntuale valutazione della nascente "star". Così anche negli States, "Time", "Newsweek" e perfino l’indulgente "Variety" vanno stroncando simili prodotti filmici come evidenti rimasticature di B-movies o "film- salsicce" condite con troppo spezie". Qualcuno, anzi, si spinge a sospettare che in esse si dissimuli una larvata propaganda della ideologia reaganiana allora in vigore. Nè l’ipotesi è tanto peregrina visto che, ad esempio, nel sanguinolento match tra Rocky Balboa contro il sovietico Ivan Drago si potrebbe adombrare la guerra fredda tra URSS e America, in quegli anni in pieno svolgimento. Ma è più probabile che il "body- built" Stallone abbia avuto l’idea di un astuto patchwork tra Carnera, J.Wayne e Tarzan anche allo scopo di ereditarne l’orfana audience. La struttura narrativa non può, quindi, non essere che quella di un manicheismo sempliciotto e il tema scelto ad uso di teenagers o assuefatti supporters. E più incalza la serie, più Sly si infatua nel ripetersi, e nel reiterare le stesse mosse, le stesse trovate. Come nota J.Passek nel "Dictionnaire du Cinema" (2001) “egli appare spesso incline a bluffare fino a divenire un’autoparodia in quanto raddrizzatore di torti". Ciò, forse, viene avvertito dallo stesso Stallone che intervalla a "Rocky": un nuovo alter ego, John Rambo, un reduce dal Vietnam, pronto a far fuori cento carogne, inclusi sceriffi e guardie nazionali. Qui, oltre a raffiche di pugni e zoomate, crepitano mitra e esplosioni pirotecniche, quasi fossero spot per fuochi di Capodanno. Intanto, questo alter ego piace a destra e a sinistra, forse perché viene ad accentuarsi in lui quello che era già implicito in "Rocky" un’anarchismo nemico di ogni ordine costituito. Anche il linguaggio resta allo stesso livello, approssimativo, rozzo, saturo di effetti violenti. Al quarto "Rocky", Kezich giustamente sbotta: "Stallone ormai trasferisce il personaggio in dimensioni da cartellone pubblicitario o da opera dei pupi". C’è una transvalutazione continua tra Rambo e il super boxer che esibiscono due sole espressioni, l’ingrugnita e l’eroica (o spaccatutto). Le azioni in entrambi appaiono sovumane come il cadere da venti metri senza farsi un graffio o, nel caso del guerriero, l’abbattere un elicottero col lancio di qualche pietra. Il montaggio è parimenti convulso, e le giustapposizioni spesso arbitrarie con simboli scelti tra quelli più usurati. Ma la serie del macinapugni va avanti come in un incontro in cui non si contano più i round e i "secondi" sono scomparsi. Nel 2006, ecco riapparire il sesto "Rocky Balboa", uno Stallone vedovo sessantenne, dall’occhio bovino, con i muscoli rilassati, che si appresta a sfidare un giovane antagonista. L’agilità fisica come il dinamismo della macchina da presa sono solo frutto di abili manovre ottiche. E questo stancante "déjà vu" o "remake dei remakes" riesce soltanto a spalmare noia a iosa sulla pur affezionata ("aficionada"?) platea. Non è agevole, perciò, entusiasmarsi per la riesumazione del personaggio il cui motto più cortese è "Ti spezzo in due!" Né come italo-americano sembra un modello di comportamento teso ad ottenere il riscatto sociale "grazie ad abnegazione e lavoro". Una tale apologia si è letta di recente in un "pezzo" di Arturo Cocchi sullo stesso giornale che promuove vendita e diffusione dei sei DVD. Nel contesto dell’articolo ci viene, però, data una confortante notizia: l’attore (e regista eccetera) intenderebbe chiudere con questi strabilianti suoi alter ego. E, inoltre, si badi bene che "c’è un Rocky che non Ti aspetti e che ama conversare di letterature ed arte”. Gradevole sorpresa per chi privilegia e studia il buon cinema. E che conferma il fatto che che non è mai tardi per riconciliarsi con la cultura e con modi più equilibrati nel rappresentare sullo schermo l’uomo contemporaneo.
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