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Napoli è mitopoietica, anche involontariamente. Tutto ciò che la racconta crea il mito, sia essa animata da quella vena di folklore che la rende esempio vitalissimo di una fisionomia mondialmente riconosciuta, come i noti cliché di pizza e pommarola, Pulcinella, i vicoli pavesati da lenzuola stese ad asciugare, Totò o’ Pazzariello ed altro ancora, sia che il suo canto si inerpichi per radici antiche alla ricerca di suoni mediterranei, che sono gli stessi che ascolti in Andalusia, il cante jondo ad esempio, o di quelle danze sfrontate e travolgenti con il busto che si agita a mostrare petti pieni di fanciulle ben fatte e quelle gambe tornite che spazzano l’aria con forza e vigore nella tamburiate. Napoli è così, ed è creatrice sempre del mito di se stessa, una se stessa femmina. Mai ti sogneresti di attribuire il femminile a Milano, o a Torino, o ovunque, ma Napoli è città femmina. E ama darsi con generosità a chi sa amarla. Non diversamente in questo bellissimospettacolo che si è visto al Sistina che si intitola T’Ammore, giocando con l’amore ma anche con il tamburo, ‘O tammore” che intreccia con i suoi ritmi forsennati il ballo al piede. Qui Napoli si diverte a scoprirsi una volontà più forte di aderire ad un linguaggio internazionale, perciò spesso le sue canzoni sono in inglese, o in americano, meglio. Napoli è luce e ombra, sortilegio di streghe invasate e scarmigliate, accese di luce rossa e infuocata, tarantolate, diavolesse, ma è anche l’antica serenata e il ricordo di una bimba che balla in punta di piedi con il padre, una bimba diventata americana che rievoca la sua vita a Napoli, mentre non disdegna quello che la nuova patria le offre. Ed ecco la lettera che la collega alla mamma lontana. E quelle canzoni di allora, quando il mondo era più lontano e l’America suscitava lacrime, perché allontanava dal cielo amato, dal profumo dei vicoli. “E ce ne costa lacrime ‘st’Ammerica”, cantava l’emigrante con voce drammatica, oggi la stessacanzone si appropria del ritmo rap e crea sincretismi nuovi. Ma scetavajasse, putipù, triccheballacche e caccavelle sono ancora lì a suscitare echi nelle vie, a raccogliere ragazzini allegri e vocianti, a suonare. E il canto si addolcisce nell’immortale “I’ te vurria vasà” o in “Chistu è o paese d’o sole”. Né manca un bellissimo brano “Iesce sole” che si riallaccia al mito di Orfeo, il divino cantore, cantato anche da Vinicius de Maraes nel suo sognante e magico “Orfeu negro”. Lo spettacolo presentato al Sistina, con coreografia e regia di Vittorio Biagi, accolto con entusiasmo e partecipazione, è una riuscita combinazione di eleganza, raffinatezza, e popolaresco ( da distinguere nettamente dal popolare, perché qui c’è una ricerca colta affidata ad artisti preparati, a cantanti bravissimi, a musicisti di tutto rispetto e ad un corpo di ballo che segue i movimenti coreografici di un grande coreografo come Biagi ). E’ anche una commedia musicale, se si vuole, perché segue una vera epropria tessitura drammaturgica, messa a punto dallo stesso Biagi, da Luigi Caiola e Claude Tissier, su testi di Annalisa Madonna. Sulla scena cantano magistralmente con voce impostata Annalisa Madonna, Nicoletta Battelli, Antonella Ippolito e Gianni Migliaccio (che dedica nel finale anche “Caruso” alla memoria di Lucio Dalla), sul suono di Beppe Gargiulo alla tammoria, di Gino Magurno ai plettri, di Renato Salvetti, sequence, di Agostino Oliviero, violino e mandolino, di Riccardo Schmitt alle percussioni. Dinamismo a tutto campo con Laurence Patris, Sebastiano Meli, Massimo Bartucci, Noemi Capuano, Viola Cecchini, Lucia Cinquegrana, Giulia Fedeli, Chiara Garrasi, Fatima Ranieri, Francesca Schipani e Michele Simone.Franzina Ancona
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