Ucciso dalla ragion di stato
 







di Marco Bascetta




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Si potrebbe iniziare dalla fine, da quella cerimonia «cupa e grottesca», che si celebrò il 13 maggio del 1978 nella basilica di San Giovanni intorno a una bara vuota. Lì l’intero mondo politico, che la famiglia di Aldo Moro aveva diffidato dal commemorare in forma pubblica e ufficiale la memoria del Presidente della Dc, ucciso dalle Brigate rosse pochi giorni prima, il 9 maggio, era schierato, grave e compunto, di fronte al pontefice in persona, che celebrava una messa in suffragio destinata a sostituire le esequie interdette.
Quelle immagini - scrive Andrea Colombo nella sua impeccabile ricostruzione dei tragici 55 giorni del sequestro Moro (Un affare di stato, Cairo editore, pp. 287, euro 16) - «si sono viste poco e sempre meno col passare del tempo». Men che meno saranno riproposte in questo trentennale. Sono state lasciate scivolare nell’oblio perché in quella messa in scena funebre «all’insegna della menzogna e del senso di colpa» è contenuta ed esibita tuttala semplice, agghiacciante verità del caso Moro: una verità cinica e meschina, ammantata di grandi principi: «l’ultima, macroscopica, dichiarata bugia in una storia che di bugie è infarcita». Di bugie, non di impenetrabili misteri, labirintici retroscena, e segreti, diabolici, burattinai. È appunto questa mortifera banalità, questa incapacità di uscire dagli schemi, questa nullità in attesa del nulla, che caratterizzò tutti i protagonisti della vicenda tranne uno, Aldo Moro, il prigioniero, la vittima, a costituire l’oggetto principale del racconto di Colombo.
La politica armata
Può sembrare un paradosso, ma in quei 55 giorni, l’unica persona libera, lucida, vera, perché impegnata in qualcosa di inequivocabilmente reale, salvare la propria vita, e dimostrare al tempo stesso che questo non avrebbe significato, come effettivamente non significava, la catastrofe della democrazia, fu proprio lui, il prigioniero sottoposto a «un dominio assoluto e incontrastato»,recluso in un soffocante loculo, armato di carta e penna, Aldo Moro. Le sue lettere, le lettere di un «pazzo», di un disperato affetto dalla «Sindrome di Stoccolma» (la complicità tra il sequestrato e i propri sequestratori), come il coro unanime della grande stampa e delle segreterie di partito cercarono di farlo passare, rappresentarono l’unico elemento di ragione politica e umana in una vicenda vissuta all’insegna della più desolante ottusità. Quella dei partiti in gara per rappresentare, a proprio immediato vantaggio, la fedeltà alla ragion di stato da una parte, le Brigate rosse, alla ricerca di un’autorevole conferma ai rigidi schemi della politica armata e dell’antimperialismo, dall’altra.
Gli interrogatori del prigioniero furono una delusione per i brigatisti alla ricerca di chissà quali insondabili segreti del potere. Da scambiare non si trovarono, alla fine, in mano che la sola vita di Aldo Moro. Che per il suo partito non valeva un (improbabile) rischio elettorale e ancormeno quello di veder passare nelle mani del Pci, e del suo «governo ombra», lo scettro del cosiddetto «senso dello stato». Fu proprio il partito comunista ad essere il più inflessibile guardiano della fermezza, acconciato da salvatore della patria e della democrazia. Ancora ignaro che la sua parte in commedia, la grinta statalista, sarebbe stata sbaragliata, in un breve volgere di anni, dalla spregiudicatezza craxiana.
Per le Brigate rosse, l’interesse di partito, il «fatturato politico» dell’azienda armata non ebbe peso minore. Con le armi facevano politica e dalle armi si attendevano risultati politici. In primo luogo il riconoscimento da parte dell’avversario. Della conflittualità diffusa nel paese, degli scontri di piazza, delle pratiche illegali di massa, dell’insubordinazione sociale non la pensavano molto diversamente dai Bufalini e dai Pecchioli. Dei quali condividevano, in buona parte, forma mentis e cultura politica. Che i movimenti si facessero rappresentare dal partitoarmato e ne applaudissero l’«efficienza» o che andassero al diavolo! Che il sequestro e l’assassinio di Moro avrebbe reso irrespirabile l’aria per i movimenti non era un problema delle Br, qualora non lo considerassero addirittura un vantaggio. Ben lo sapevano, invece, quelle teste politiche più vicine ai movimenti, come Franco Piperno e Lanfranco Pace, che tentarono, su sollecitazione del Psi, di evitare un esito sanguinoso della vicenda, tramite l’intercessione dell’ala più «movimentista» delle Brigate rosse: Valerio Morucci e Adriana Faranda, di lì a poco in rotta con l’organizzazione.
La rigidità di questi due schemi contrapposti, accomunati dall’idea dell’autonomia del politico, autonomia, fra l’altro, da ogni ragione umanitaria, segnò la sorte di Moro. La Democrazia cristiana scartò, una dopo l’altra, le diverse ipotesi di concessioni che potessero non apparire come un cedimento (graziare un detenuto per motivi di salute, chiudere il supercarcere dell’Asinara). Furonolasciate cadere perché in questione non era un principio di legalità o l’autorevolezza dell’ordinamento democratico, ma il rapporto di forza tra i partiti e nei partiti. Pilatescamente la Dc lasciò che il tempo e l’immobilismo determinassero il tragico esito della vicenda.
Le Brigate rosse, pur consapevoli della sconfitta, contenuta probabilmente già nella strage di via Fani e nell’emozione che aveva suscitato, non potevano uscire di scena con un «nulla di fatto». Che da lì sarebbe iniziata la parabola discendente, sia pur sempre più infestata di omicidi e ferimenti, non era difficile capirlo. L’assassinio del prigioniero non fu, a quel punto, che un meschino, grottesco punto d’onore.
L’unico ad agire liberamente, sia pure con il solo strumento della sue lettere, fuori dagli schemi e, paradossalmente, dai ricatti è proprio Aldo Moro dalla sua prigione. Modula le sue argomentazioni secondo i diversi interlocutori che ben conosce, suggerisce le mosse, ragiona sul senso possibile diquesto o quell’atteggiamento. E il fatto di farlo per salvare la propria vita, non priverà affatto di valore e lucidità le sue argomentazioni. Le circostanze della prigionia permettono, inoltre, a Moro di capire il fenomeno brigatista, di rendersi conto di cosa sono le Br, di cosa rappresentano e come si autorappresentano, del linguaggio che parlano e delle risposte che possono intendere. Con un cinismo estremo, ammantato di nobili principi, il mondo politico destituirà di ogni fondamento le lettere di Moro.
La vittoria della fermezza
Le Brigate rosse, per parte loro, seguendo gli schemi semplicistici della propaganda, capiscono poco della partita che il presidente della Dc ha ingaggiato con il suo mondo. Diffondono ciò che dovrebbe essere sottaciuto, nascondono ciò che meriterebbe di essere diffuso. E neutralizzano così anche ciò che, indirettamente, potrebbe farle uscire da un vicolo cieco.
Ad averla vinta sarà il paradigma della «fermezza» destinato a unalunga fortuna con una discreta scia di vittime. Principio astratto, agitato nella contingenza da concreti poteri e spesso, quando conviene, segretamente, aggirato. Qualcosa che ha molto più a che fare con l’immagine e le prerogative del potere che con una qualche idea di giustizia. E anche il Vaticano, dal quale, fino all’ultimo, Moro si attese un intervento decisivo, in qualche modo si allineò. E fino ad oggi, nella sua difesa della vita «senza se e senza ma», la Chiesa non ha mai annoverato la vita degli ostaggi tra i «valori non negoziabili». Quando si tratta della sovranità, l’autonomia del «braccio secolare» non è messa in questione e ogni relativismo ammesso. Quella che Colombo ci racconta, e che non sarà commemorata, è la vergogna della politica di allora e di oggi.de Il Manifesto









   
 



 
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