I volti della coscienza
 











Più che un saggio, si direbbe la trascrizione di una lunga conferenza: I volti della coscienza (Cantagalli, 2013) potrebbe essere il resoconto di un ciclo di seminari. Rigoroso, formale, ma senza i tecnicismi di una lezione accademica. Se fosse davvero così, se quest’opera, firmata dal neurochirurgo e neuropsichiatra Massimo Gandolfini, fosse pensata per essere ascoltata, e non letta, sarebbe più convincente. Non tanto per l’uso esagerato di acronimi, né per la fiumana di espressioni virgolettate che si incontrano a ogni pagina. Ciò che poteva sfuggire a un ascoltatore e salta invece all’occhio del lettore è che le conclusioni, per quanto ispirate, non sembrano avere a che fare con il resto del discorso.
Che cos’è la coscienza? Dove risiede? Una sua descrizione scientifica è possibile? Lo scopo del libro è ambizioso: proporre, se non una risposta, almeno un approccio a tutte queste domande. “Sono convinto che il primo requisito dell’onestàintellettuale sia proprio l’analisi del dato reale, l’assunto razionale, l’elaborazione scientifica. In una parola, il non cedere alla tentazione di piegare la ragione alla propensione ideologica.” Una premessa che fa ben sperare, a cui fanno seguito svariati capitoli che permettono al lettore profano di farsi un’idea degli strumenti che oggi il neuroscienziato ha a disposizione per districarsi nella ricerca dei meccanismi della coscienza. Strumenti, avverte Gandolfini, oggi insufficienti: definizioni inadeguate, esperimenti non risolutivi, soglie incerte. Come quella che separa lo stato vegetativo permanente dallo stato di minima coscienza, che oggi si riescono a distinguere solo con un margine di errore del 40%.
Molto utile e informativo il passaggio sul neuroimaging: tutti abbiamo letto articoli più o meno scientifici corredati da una di queste figure che ritraggono un cervello umano costellato di lucette colorate, a indicare le aree che si attiverebbero durante un determinatocompito. Ebbene, ammonisce Gandolfini, anche queste analisi soffrono di un limite intrinseco. Quel che ci restituiscono non sono fotografie, ma interpolazioni, stime, medie. Come possiamo pensare di basarci su di esse per estrapolare il funzionamento della coscienza?
Non bisogna poi confondere, continua Gandolfini, tra la descrizione di un fenomeno e la sua causa. Per esempio, sappiamo cosa succede a un paziente con una malattia neurodegenerativa, ma non sappiamo perché gli succeda. Allo stesso modo, prosegue l’autore, non dobbiamo pensare che conoscere le manifestazioni fisiche della coscienza esaurisca il problema di cosa provochi la coscienza. Una distinzione filosofica di tutto rispetto, che tuttavia si applica alla coscienza e alle malattie neurodegenerative così come a innumerevoli altri fenomeni medici, biologici, fisici. Resta da chiarire se il problema della coscienza abbia maggiore dignità rispetto ad altri interrogativi, scientifici e non, a cui ci accontentiamo dirispondere con lo studio di ciò che vediamo succedere. La ricerca di una causa, e della causa della causa, e così via, è in fondo il destino di quasi ogni indagine intellettuale; la coscienza non fa eccezione, quindi perché saltare le tappe?
Gandolfini va oltre, citando il ruolo del caso e della complessità: se non sappiamo prevedere l’esito del lancio di una moneta, non è certo per via dell’intervento di forze oscure e misteriose. Semplicemente, le variabili sono troppe. Troppe per noi, per i nostri strumenti, per il nostro discernimento. Lo stesso vale per il cervello: 100 miliardi di neuroni con un intreccio sinaptico di almeno 1015 connessioni sinaptiche, recita l’autore. Un sistema decisamente troppo complesso per essere colto da un’indagine quantitativa.
Un’analisi accurata e non banale, che tuttavia si conclude con una tesi ardita che non segue dai ragionamenti precedenti: “il cervello è organo necessario ma non sufficiente per spiegare la coscienza”. La scienza oggi nonsa descrivere la coscienza; non sa individuare i meccanismi fisici che corrispondono a un’idea condivisa di coscienza. In che modo questo significa che la spiegazione di tali meccanismi non risieda semplicemente nel funzionamento del cervello e nelle sue risposte all’ambiente? È come dire che, se io non so fare il risotto – ammettiamo pure che io sia lappone, e che nessuno dei miei conterranei sappia fare il risotto - allora per farlo ci vogliono sicuramente ingredienti che non si trovano in nessuna cucina della Lapponia.
Un atteggiamento che lo stesso Gandolfini sembra ritenere miope nelle prime pagine del libro: “Il fatto che la funzione cosciente sia inaccessibile all’osservazione esterna perché non comunicabile, non ci autorizza a ritenere che sia assente, ma ci stimola a ricercare nuove strategie o tecniche di studio e rilevazione. Un po’ come si fece con gli ultrasuoni o l’infrarosso: non essendo in grado di rilevarli non abbiamo né sentenziato che, quindi, non esistono, néabbiamo abbandonato la ricerca”. Parole sante, che però non trovano riscontro nella conclusione del saggio.
Dopo un excursus antropocentrico in cui si dice che la coscienza è prerogativa dell’uomo, perché “non esiste animale alcuno che abbia scritto la Divina Commedia, o composto la Nona Sinfonia!” le nuove strategie promesse si traducono in considerazioni non più scientifiche. Il lettore si trova improvvisamente davanti ad affermazioni in cui si tira in ballo l’anima e si parla dell’esistenza “di uno ’strato’ psichico/spirituale” - scelta del tutto legittima, ma assai lontana dell’approccio razionale indicato all’inizio. Così come la citazione finale: “La coscienza è il nucleo più segreto ed il sacrario dell’uomo, dove egli si trova solo con Dio. Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1776”. Roberta Fulci









   
 



 
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