Una buona politica per la buona giustizia
 











«Contrariamente a quanto suggerisce il
supporto metafisico della ‘mano invisibile’,
il mercato non persegue la certezza, né può
evocarla, e tanto meno garantirla. Il mercato
prospera sull’incertezza (chiamata di volta
in volta, competitività, deregolamentazione,
flessibilità)»[1]
Zygmunt Bauman

«Toga rossa è la definizione utilizzata da
menti esperte nelle tecniche di marketing
per radicare tra i cittadini il convincimento
che esistano in Italia giudici e pubblici
ministeri che nel loro lavoro quotidiano
sono mossi esclusivamente dalle proprie
simpatie per i partiti di sinistra»[2]
Armando Spataro

Filosofi del diritto di generazioni diverse, Ferrajoli (1940), teorico del garantismo, e Barberis (1956), giusrealista allievo di Giovanni Tarello, si confrontano sulla questione giustizia in un dialogo dove le differenze reciproche finiscono persfumare.
Alla fine, i due interlocutori sembrano segnati soprattutto dal diverso atteggiamento nei confronti del relativismo novecentesco, del «non esistono i fatti, esistono solo le interpretazioni» di Friedrich Nietzsche; cui Ferrajoli reagisce con una fede neoilluminista nelle risorse della ragione e della politica, mentre Barberis sembra sposare piuttosto le ragioni, molto più scettiche e realiste, del pluralismo e del diritto.
Dalla discussione emerge – infatti – la comune ascendenza nel pensiero di Norberto Bobbio, grande maestro di rigore analitico, e l’attitudine a ritrovarsi sul terreno della civile ragionevolezza; ma – al tempo stesso – permangono riconoscibili differenze di toni e di stile: alla stentorea affermazione di un repubblicanesimo democratico e interventista di Ferrajoli («il diritto positivo è una costruzione interamente artificiale, e può essere costruito, anziché come legge del più forte, riflesso o sovrastruttura della struttura capitalistica, come leggedel più debole»[3]), fa da controcanto il liberalismo ironico del discussant: ad esempio quando si segnala l’andazzo in materia di legislazione, per il quale si dovrebbero «selezionare giuristi, anche se di solito si preferiscono nani e ballerine»[4].
La risultante di un tale confronto tra intellettuali laici ed illuministi in senso lato, che tendono sostanzialmente a convergere sulle ragioni di fondo, è una sorta di manifesto per la società del civismo democratico promossa da una cultura della legalità mai inquisitoria, anzi mite e accompagnatrice all’inclusione. Non a caso Ferrajoli parla di “diritto penale minimo” con accenti alla Cesare Beccaria.
Discorso in controtendenza rispetto allo spirito del tempo? O non piuttosto l’annuncio che è giunta al termine la stagione fanatizzata della postdemocrazia espropriatrice dei diritti e delle garanzie, e con essa pure quella delle tricoteuses che le si contrapponevano, evidenziando speculari vizi di fanatismo? Si vedrà.
In ognicaso, appurato che il dialogo Ferrajoli-Barberis si conclude nel giugno di quest’anno, il suo appello per una nuova cultura della legalità assume una valenza profetica rispetto a quanto la Cassazione ha poi sancito il primo agosto. Ossia la fine della vicenda politica di Silvio Berlusconi, che ha marchiato nell’intimo la Seconda Repubblica dell’ultimo ventennio: la ricezione in una clownesca “rivoluzione liberale”, guidata da un monopolista limitrofo alla criminalità organizzata e campionario ambulante di tutti i vizi di una italianità macchiettistica, della svolta mondiale avvenuta nell’ultimo quarto del XX secolo con l’avvento del reaganismo-thatcherismo; tradotto nell’attacco allo Stato Sociale e ai suoi esiti in termini di cittadinanza inclusiva.
Forse la fine del primato dell’avidità; quanto i francesi del MAUSS (Movimento anti-utilitaristico) definiscono “l’assiomatica dell’interesse”. Ma anche (auspicabilmente) stop alle operazioni terroristiche di supporto; per cui – comespiegava Bauman – la “politica della paura”, indotta nei confronti di un generico “altro”, è riuscita ad anteporre, in quanto priorità d’agenda condivisa, la sicurezza come incolumità (safety) alla sicurezza come garanzia di un ruolo sociale e relativi diritti (security)[5].
Perciò, contro le logiche imposte dai promotori di una silenziosa “guerra civile dei ricchi contro i poveri” che identifica la libertà nella possessività, Ferrajoli si lancia nella definizione di un articolato programma altamente identitario (dallo ius migrandi al diritto all’istruzione e alla salute, l’educazione al civismo) per una Sinistra che riconquisti il proprio ruolo nel nuovo scenario globale; in cui lo Stato perde il monopolio della legalità, mentre prendono campo “poteri invisibili”. E Barberis lo insegue sullo stesso terreno, premurandosi di rimettere il discorso con i piedi per terra quando tende a volare troppo in alto nel cielo dell’utopia.
Entrambi convengono, d’altronde, che l’origine dellacrisi sistemica va individuata nella resa della politica nei confronti dell’economico; che va denunciata a vantaggio della ripresa di centralità del discorso pubblico e delle funzioni regolative di istituzioni elette democraticamente.
Da qui la comune avversione per quelle forme di democrazia diretta che sono venute imponendosi nell’odierno politaiment: lo star system mediatizzato che trasforma la politica in una sorta di set da reality, in cui il cittadino finisce degradato a spettatore con il solo diritto di applaudire la star, il leader simil carismatico. Giudizio che si riverbera anche sul protagonismo delle ultime entrate nel campo del populismo demagogico: da Beppe Grillo («siamo di fronte all’ennesima autobiografia della nazione… un imbonitore»[6], tuona Ferrajoli) a Matteo Renzi («berlusconismo in dosi omeopatiche», secondo Barberis).
Da tutto questo risulta evidente che l’idea promossa dai due filosofi del diritto, proprio alla luce del loro impegno, è una legalitàintrisa di storicità. In cui cultura e politica ridisegnano l’idea del giusto alla luce – come avrebbero detto Pierre Bourdieu e Roger Chartier – «dei rapporti di forza e delle poste in gioco»[7].
Di conseguenza, quando Ferrajoli propone una maggiore integrazione tra giuristi ed economisti per metter a punto analisi arricchite dalle interdipendenze tra i rispettivi saperi, gli si potrebbe suggerire di allargare il campo tanto alla sociologia e alla storia come all’antropologia culturale.
Infatti la catastrofe dei “Gloriosi Trenta” (“l’età dell’oro” – come la chiama Eric Hobsbawm – del secondo dopoguerra) e la cosiddetta “rivincita degli austriaci” (la svolta NeoLib” promossa dagli Hayek e dai Mises) sarebbero incomprensibili senza l’analisi delle trasformazioni avvenute nel frattempo entro le viscere delle società occidentali. Che crearono l’ambiente favorevole per imbarbarimenti a trance in cui – ad esempio – «caddero gli intellettuali americani risucchiati nel vortice istericodelle ambizioni belliche di George W. Bush»[8].
Uno dei lunghi passi in avanti verso quella catastrofe che sgomenta Ferrajoli, consapevole che il solo rimedio «è – come sempre, ma oggi più che mai – l’affermazione della ragione politica e giuridica: in breve, lo sviluppo di una sfera pubblica globale all’altezza dei problemi, delle sfide e dei nuovi poteri»[9].Pierfranco Pellizzetti
NOTE
[1] Z. Bauman, La solitudine del cittadino globale, Feltrinelli, Milano 2000 pag. 38
[2] A. Spataro, Ne valeva la pena, Laterza, Bari 2010 pag. 228
[3] L. Ferrajoli, Dei Diritti, op. cit. pag. 45
[4] ibidem pag. 23
[5] Z. Bauman, La solitudine, op. cit. pag. 29
[6] Perrajoli, op. cit. pag. 140
[7] P. Bourdieu e R. Chartier, Il sociologo e lo storico, Dedalo, Bari 2011 pag. 44
[8] T. Judt, Lo chalet della memoria, Laterza, Bari 2011 pag. 174
[9] L. Ferrajoli, Dei Diritti, op. cit. pag. 177.

Luigi Ferrajoli (in dialogo con Mauro Barberis),Dei Diritti e delle Garanzie, il Mulino, Bologna 2013.

 

 

 


 









   
 



 
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