La verità è donna
 











L’aspirazione è di tutto rispetto e certamente condivisa da molti: diventare ricco, molto ricco e potente, tanto da determinare i destini degli altri. E se per farlo bisogna utilizzare armi subdole e incrudelire su chi ha fiducia e affetto, che c’è di male? Simili aspirazioni sono degne di rispettabilità, attraggono come miele mosche affamate di un sostegno per percorrere le vie del successo, specie se fermo come un pilone di una anacronistica autostrada, c’è un uomo che universalmente è riconosciuto come uno dei Pilastri della società. Lui è il fulcro e il motore primo di speculazioni che, alla fine, potrebbero persino agevolare il cammino verso il benessere di molte famiglie, anche se al fondo nel fitto tessuto dell’ordito c’è sempre   la sua ricerca di altra ricchezza, di altro potere. Il drammone di Ibsen, I Pilastri della Società, che Gabriele Lavia porta in scena al Teatro Argentina per la stagione del Teatro di Roma, inizia con gliaccordi per la costruzione di una ferrovia che corra lontana dalla costa, per non ostacolare i traffici  marittimi, con un segmento di raccordo che porti in città vagoni e  passeggeri.  Naturalmente, tutti i terreni agricoli, interessati dalla strada ferrata, avranno un immaginabile incremento di valore. Perciò il console Bernick, o meglio l’affarista Bernick, sempre al centro di una fitta rete sociale, dalla famiglia alla comunità, protagonista dove la menzogna, l’ipocrisia, il cinismo, hanno campo libero, ne ha fatto segretamente incetta, trascinando nel suo progetto  un pugno di  corruttibili uomini, affaristi come lui, disposti ad appoggiarlo nell’impresa. Uomo ibseniano per eccellenza, Bernick è impastato di falsità, e la mancanza di scrupoli o di sentimenti non solo sono il suo lievito ma ne determinano quell’insanabile contrasto con l’elemento femminile certamente assai più ricco di valori morali che, a vario titolo, frequenta la sua vita, a cominciaredalla moglie, una donna deliziosa che si mantiene perfettamente in linea con le convenzioni sociali, ricevendo per il tè altre signore con le quali parla di associazioni benefiche, di circoli culturali, là nel grande salotto buono  dalle sfolgoranti poltrone rosso fuoco, nei riflessi aurei delle specchiere, fra i ritratti degli antenati che non possono mancare in una famiglia alto-borghese e con le magnifiche vetrate liberty che circondano a tutto tondo una casa che si intuisce magnifica. Qui, risuona un pianoforte e   canzoncine cantate in coro che mischiano temi triti di bontà con invocazioni pseudo religiose sotto la guida di un professore, e con l’ausilio di altre donne, che si esibiscono in gridolini leziosi. Qui Lavia regista fa muovere il suo coro di gallinelle con quelle improvvise stasi che ricordano da vicino i passetti già usati in una edizione assai fortunata di “Tutto per bene”. Come se d’improvviso la corda che aziona e vitalizza i personaggi si fermasse.Sul piano opposto c’è lui, l’ipocrita mistificatore che ha edificato la sua carriera di uomo rispettabile e la sua ricchezza sul sacrificio di  Johan, il fratello della moglie, capro espiatorio innocente di un adulterio e di un furto.  Johan era fuggito in America con la sorellastra Lona, l’unica donna che abbia veramente amato Bernick, messa da parte perché la dote di Betty era più consistente, ed ora stanno tornando in patria, e con  loro torna il pericolo che la demistificazione abbia campo libero, che le falsità e le ipocrisie vengano accese d’un subito sfasciando la costruzione fatta di perbenismo sulla quale svetta, pilastro della società, l’affarista Bernick. Così prende il via la vicenda che Lavia porta in sena, curandone ogni più minuto particolare, a cominciare dalla propria interpretazione, nella quale risalta il carattere e le contraddizioni di Bernick, ma anche un certo  senso dell’humour che è innanzitutto una cifra espressiva del grandeattore/regista. Anche la scelta della interpretazione, di una rara “pulizia” serve a mantenere quell’allure particolare che dà ragione delle nefandezze del personaggio ma senza caricarle di alcun senso di colpa,  come un inevitabile modus agendi nell’interesse superiore della salvezza della azienda di famiglia dal collasso, e del successo economico. Nel piccolo ambiente borghese con un occhialuto controllo sociale il ritorno inatteso di Johan e di Lona  che l’accompagna sono fonte di chiacchiere. Nessuno in realtà sopportava quella ragazza che in un’epoca di bigottismo e di stretta osservanza delle regole borghesi,  si  mostrava in abiti maschili e con i capelli corti e svolazzanti, laddove ogni signora rispettosa delle norme non scritte avrebbe stretto le chiome in uno chignon concedendosi solo nel segreto della camera da letto l’audacia di lasciarli liberi. Dalla partenza di Johan tante cose sono cambiate. Dina, la ragazzina figlia della tanto criticata attrice diteatro,  che aveva osato ricevere nella sua casa l’amante, è stata accolta nella casa del console e si è fatta adulta e scalpita con improvvisi bagliori genetici per un’altra vita, dove potrà determinarsi lavorando, in America, per esempio. Non sarà difficile trovare un passaggio poco costoso in quella Indian Lady messa in rimessaggio da un armatore americano proprio nel cantiere navale di Bernick. Il quale, non è certo disposto a pagare eventuali penali per ritardo nella riconsegna della nave e cinicamente medita di farla partire con il fasciame fradicio solo ricoperto da un   tocco di vernice. Un modo per mandare a morte certa i diciotto uomini dell’equipaggio, che potrebbero però ora essere raggiunti da Johan e da Dina, e dal piccolo Olaf, l’ erede della fortuna di Bernick, affascinato dallo zio e dalle avventure che si possono godere in terra di indiani. Solo il caso scongiura la tragedia e avvia il dramma verso il lieto fine, lasciando in campo la riflessione cheaccettare che i fondamenti della società   non sono la ricchezza e il potere ma vanno cercati altrove. La verità e la libertà, sulle quali si condensa l’attenzione delle donne, gli unici esseri cui Ibsen assegna un fondamentale ruolo sociale, sembrano le uniche destinate a costituire i veri pilastri della società. Lo spettacolo, una nuova produzione del Teatro di Roma. è di tale fattura, in tutte le sue componenti, da apparire quasi un unicum. A cominciare dal cast, che annovera nei vari ruoli Giorgia Salari, Ludovica Apollonj Ghetti, Viola Graziosi, Graziano Piazza, Federica Di Martino, Mario Pietramala, Andrea Macaluso, Mauro Mandolini, Alessandro Baldinotti, Massimiliano Aceti, Camilla Semino Favro. Michele De Maria, Carlo Sciaccaluga, Clelia Piscitello, Giovanna Guida, Giulia Gallone, Rosy Bonfiglio, diciassette attori, oltre Lavia che si muovono nella scena bellissima di Alessandro Camera, vestiti in modo eccellente da Andrea Viotti, illuminati creativamente da GiovanniSantolamazza e con le musiche di Giordano Corapi.
L’aspirazione è di tutto rispetto e certamente condivisa da molti: diventare ricco, molto ricco e potente, tanto da determinare i destini degli altri. E se per farlo bisogna utilizzare armi subdole e incrudelire su chi ha fiducia e affetto, che c’è di male? Simili aspirazioni sono degne di rispettabilità, attraggono come miele mosche affamate di un sostegno per percorrere le vie del successo, specie se fermo come un pilone di una anacronistica autostrada, c’è un uomo che universalmente è riconosciuto come uno dei Pilastri della società. Lui è il fulcro e il motore primo di speculazioni che, alla fine, potrebbero persino agevolare il cammino verso il benessere di molte famiglie, anche se al fondo nel fitto tessuto dell’ordito c’è sempre   la sua ricerca di altra ricchezza, di altro potere. Il drammone di Ibsen, I Pilastri della Società, che Gabriele Lavia porta in scena al Teatro Argentina per la stagione del Teatro di Roma,inizia con gli accordi per la costruzione di una ferrovia che corra lontana dalla costa, per non ostacolare i traffici  marittimi, con un segmento di raccordo che porti in città vagoni e  passeggeri.  Naturalmente, tutti i terreni agricoli, interessati dalla strada ferrata, avranno un immaginabile incremento di valore. Perciò il console Bernick, o meglio l’affarista Bernick, sempre al centro di una fitta rete sociale, dalla famiglia alla comunità, protagonista dove la menzogna, l’ipocrisia, il cinismo, hanno campo libero, ne ha fatto segretamente incetta, trascinando nel suo progetto  un pugno di  corruttibili uomini, affaristi come lui, disposti ad appoggiarlo nell’impresa. Uomo ibseniano per eccellenza, Bernick è impastato di falsità, e la mancanza di scrupoli o di sentimenti non solo sono il suo lievito ma ne determinano quell’insanabile contrasto con l’elemento femminile certamente assai più ricco di valori morali che, a vario titolo, frequenta la sua vita,a cominciare dalla moglie, una donna deliziosa che si mantiene perfettamente in linea con le convenzioni sociali, ricevendo per il tè altre signore con le quali parla di associazioni benefiche, di circoli culturali, là nel grande salotto buono  dalle sfolgoranti poltrone rosso fuoco, nei riflessi aurei delle specchiere, fra i ritratti degli antenati che non possono mancare in una famiglia alto-borghese e con le magnifiche vetrate liberty che circondano a tutto tondo una casa che si intuisce magnifica. Qui, risuona un pianoforte e   canzoncine cantate in coro che mischiano temi triti di bontà con invocazioni pseudo religiose sotto la guida di un professore, e con l’ausilio di altre donne, che si esibiscono in gridolini leziosi. Qui Lavia regista fa muovere il suo coro di gallinelle con quelle improvvise stasi che ricordano da vicino i passetti già usati in una edizione assai fortunata di “Tutto per bene”. Come se d’improvviso la corda che aziona e vitalizza i personaggisi fermasse. Sul piano opposto c’è lui, l’ipocrita mistificatore che ha edificato la sua carriera di uomo rispettabile e la sua ricchezza sul sacrificio di  Johan, il fratello della moglie, capro espiatorio innocente di un adulterio e di un furto.  Johan era fuggito in America con la sorellastra Lona, l’unica donna che abbia veramente amato Bernick, messa da parte perché la dote di Betty era più consistente, ed ora stanno tornando in patria, e con  loro torna il pericolo che la demistificazione abbia campo libero, che le falsità e le ipocrisie vengano accese d’un subito sfasciando la costruzione fatta di perbenismo sulla quale svetta, pilastro della società, l’affarista Bernick. Così prende il via la vicenda che Lavia porta in sena, curandone ogni più minuto particolare, a cominciare dalla propria interpretazione, nella quale risalta il carattere e le contraddizioni di Bernick, ma anche un certo  senso dell’humour che è innanzitutto una cifra espressiva del grandeattore/regista. Anche la scelta della interpretazione, di una rara “pulizia” serve a mantenere quell’allure particolare che dà ragione delle nefandezze del personaggio ma senza caricarle di alcun senso di colpa,  come un inevitabile modus agendi nell’interesse superiore della salvezza della azienda di famiglia dal collasso, e del successo economico. Nel piccolo ambiente borghese con un occhialuto controllo sociale il ritorno inatteso di Johan e di Lona  che l’accompagna sono fonte di chiacchiere. Nessuno in realtà sopportava quella ragazza che in un’epoca di bigottismo e di stretta osservanza delle regole borghesi,  si  mostrava in abiti maschili e con i capelli corti e svolazzanti, laddove ogni signora rispettosa delle norme non scritte avrebbe stretto le chiome in uno chignon concedendosi solo nel segreto della camera da letto l’audacia di lasciarli liberi. Dalla partenza di Johan tante cose sono cambiate. Dina, la ragazzina figlia della tanto criticata attrice diteatro,  che aveva osato ricevere nella sua casa l’amante, è stata accolta nella casa del console e si è fatta adulta e scalpita con improvvisi bagliori genetici per un’altra vita, dove potrà determinarsi lavorando, in America, per esempio. Non sarà difficile trovare un passaggio poco costoso in quella Indian Lady messa in rimessaggio da un armatore americano proprio nel cantiere navale di Bernick. Il quale, non è certo disposto a pagare eventuali penali per ritardo nella riconsegna della nave e cinicamente medita di farla partire con il fasciame fradicio solo ricoperto da un   tocco di vernice. Un modo per mandare a morte certa i diciotto uomini dell’equipaggio, che potrebbero però ora essere raggiunti da Johan e da Dina, e dal piccolo Olaf, l’ erede della fortuna di Bernick, affascinato dallo zio e dalle avventure che si possono godere in terra di indiani. Solo il caso scongiura la tragedia e avvia il dramma verso il lieto fine, lasciando in campo la riflessione cheaccettare che i fondamenti della società   non sono la ricchezza e il potere ma vanno cercati altrove. La verità e la libertà, sulle quali si condensa l’attenzione delle donne, gli unici esseri cui Ibsen assegna un fondamentale ruolo sociale, sembrano le uniche destinate a costituire i veri pilastri della società. Lo spettacolo, una nuova produzione del Teatro di Roma. è di tale fattura, in tutte le sue componenti, da apparire quasi un unicum. A cominciare dal cast, che annovera nei vari ruoli Giorgia Salari, Ludovica Apollonj Ghetti, Viola Graziosi, Graziano Piazza, Federica Di Martino, Mario Pietramala, Andrea Macaluso, Mauro Mandolini, Alessandro Baldinotti, Massimiliano Aceti, Camilla Semino Favro. Michele De Maria, Carlo Sciaccaluga, Clelia Piscitello, Giovanna Guida, Giulia Gallone, Rosy Bonfiglio, diciassette attori, oltre Lavia che si muovono nella scena bellissima di Alessandro Camera, vestiti in modo eccellente da Andrea Viotti, illuminati creativamente da GiovanniSantolamazza e con le musiche di Giordano Corapi. Franzina Ancona









   
 



 
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