Cecità, virus globalizzato
 







di Roberto Silvestri




Una nube bianca entra misteriosamente nei cervelli degli umani che, senza lesione del nervo ottico, improvvisamente non vedono più nulla, anzi vedono tutto e solo bianco su bianco. L’epidemia (originatasi, sarà un caso, proprio dentro una Fiat nuova fiammante) si allarga sul territorio, senza antidoti, per contagio diretto. I primi contaminati vengono frettolosamente e brutalmente internati, messi in quarantena e abbandonati a se stessi, con lo stile e l’ottusità armata e assassina tipica di un qualunque marine esegui-ordini alla Lozano. Nell’universo disperato e concentrazionario di questo dopo-Katrina immaginario, presto trasformato in letamaio pre-Basaglia, si svilupperanno automatiche pulsioni e ciniche strategie di dominio sadico. Facile sequestrare il cibo, e chiedere in cambio del nutrimento razionato oro, gioielli, sesso e umiliazioni di ogni tipo, se prende forma (naturalmente?) una banda di nazi qualunque attorno a una colt e a un cieco «professionista»,infiltrato chissà perché e da chi laggiù, e abituato a leggere il buio e a tener la contabilità con il braille. Finché una donna bionda e bella, buona e angelica, e un saggio african-american orbo, utilizzeranno contro quel dominio, l’arma del proprio sabotaggio, dopo aver a lungo trattenuto, per scrupoli morali, le proprie «diversità» (misteriosamente lei continua a vedere). E riconquisteranno il mondo, a cominciare da un unico cane che non perde tempo a sbranar cadaveri in bianco e nero.
Sarebbe piaciuto a Rod Serling, il creatore della serie tv Ai confini della realtà, questo apologo sulla cecità globale, scritto da un comunista, sul mondo di oggi, insensibile alla sofferenza, alla fame, allo sfruttamento della maggioranza dell’umanità, anzi pronta, appena un cataclisma offra l’occasione propizia, come in Birmania e in Cina in queste ore, a decuplicare i profitti con qualunque mezzo finanziario e militare necessario. Certo, Blindness è stato trasformato, popolarizzato e anchedeformato rispetto al romanzo del 1995 di Saramago, ma il copione di Don McKellar, a differenza del testo originale, gioca a cancellare, con intento zen, proprio le immagini ottiche e acustiche (la partitura di Marco Antonio Guimaraes è prodigiosamente inudibile) prodotte dal regista, che sono quelle medie, comuni, della tv, mentre lo scrittore portoghese era costretto a produrre indelebili «immagini mentali» capaci di indignare e di spingere alla praxis e alla lotta il lettore.
Che fertile bizzarria. Quattro notti con Anna, di Jerzy Skolimowski, ovvero un simbolo del ’68 polacco, apre domani la Quinzaine des Realisateurs, la rassegna «ombra» della Croisette, anzi l’anti-Cannes militante, visto che nacque dalle lotte del maggio, e che resta la sobria vetrina delle 20 proposte più originali e indipendenti del festival. Eppure Olivier Pere, il delegato generale, che si considera l’erede diretto del fondatore Pierre-Henry Deleau, inaugura le sue oltre venti scelte innovative con ilfilm di un maestro impudicamente old fashion, onirico e perverso, passionale e troppo poco cool, come piaceva molto a quei tempi, e molto poco ai nostri.
Invece l’ufficialissima Cannes 61, con tanto di scalinata e cascate di divi e diamanti che fa «vedere rosso» ai neopopulisti nostrani, sbriciolati dal paragone umano, ha scelto per l’apertura di ieri del concorso una produzione multinazionale di genere e di «bellezza industriale» spudorata, questo catastrofico, filosofico e politico Blindness (cecità). È l’opera terza del brasiliano Fernando Meirelles, tratto dal romanzo omonimo di José Saramago, Nobel della letteratura (il primo in lingua portoghese), set San Paolo, Toronto e Montevideo, coproduzione Canada, Brasile e Giappone, cast a dominanza statunitense (Julianne Moore, Mark Ruffalo, Danny Glover, Gael Garcia Bernal e l’emergente Alice Braga), ma che rappresenta perfettamente, rullio e beccheggio compresi, l’onda latinoamericana insorgente, tra manierismi seducenti, designattrezzato e competitivo (a Berlino un brasiliano un tantino più cinico di Meirelles, si è portato via addirittura l’Orso d’oro), ritmo techno, estetizzazione dell’orrido e scienza dello sguardo globalizzato e medio.
Già, la vista, l’occhio, i suoi misteri e i suoi limiti, hanno meritato il primissimo piano del festival (lo si vede anche nel poster di Cannes 61: una bionda diva ha gli occhi censurati da un rettangolino nero). Nel primo film, l’ode per un guardone, si spia, nell’ombra, l’invisibile, l’osceno desiderio. Nel secondo l’osceno che ci circonda non si riesce proprio più a notarlo. Dunque i due film in qualche modo sono più complementari di quanto non sospetti Thierry Fremaux, il karateka di Lyon che è, per la prima volta, delegato unico e, indeciso fino all’ultimo secondo sulla sua selezione, ha permesso che Marco Mueller svelasse prima di lui il film d’apertura del festival.
Skolimowski non girava più un film da 15 anni. Non aveva più diretto in Polonia, dalla fugasessantottina dal socialismo reale. Dunque questa è quasi un’opera prima. E poi, parola di Olivier Pere, si troveranno alla Quinzaine, «opere di quarantenni o meno davvero imprevedibili, soprattutto dall’Oriente e dall’America Latina», continente che, per il momento, sembra stia salvando il Mercato di Cannes, che trema per la recessione planetaria e per i magri rendiconti del Sundance (il giro di affari si sarebbe dimezzato, da 53 a 25 milioni di dollari), dando un buon 16% in più di compratori e addetti ai lavori presenti sulla Croisette. Già si dice che i tre oggetti del desiderio principale, per i distributori mondiali, saranno il Che di Soderbergh, Two Lovers di James Gray e Synecdoche, New York di Charlie Kaufman, ovvero i tre made in Usa in competizione, perché il tocco americano è sempre il più seducente, per il consumo.de Il Manifesto









   
 



 
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