L’ultimo libro di Salvatore Palidda Mobilità umane. (Raffaello Cortina editore, pp. 211, euro 19,50) è un racconto in prima persona di un giovanissimo scolaro siciliano emigrato nella Milano dei primi anni Sessanta, poi giovane militante nella Germania degli anni Settanta per la tutela dei lavoratori italiani, infine ricercatore a Parigi negli anni Ottanta, dopo una breve esperienza operaia in Francia. È una ricognizione, alla quale non mancano i tratti polemici del pamphlet, sui recenti studi sulle migrazioni ispirati dal grande sociologo franco-algerino Abdelmalek Sayad il quale ha denunciato il «pensiero di stato» che occulta il senso politico delle migrazioni, atto politico ed esistenziale soggettivo del migrante e non minaccia alla sicurezza dello stato e dei suoi cittadini. Una totalità sociale L’intreccio proposto da Palidda tra la biografia dello studioso e l’oggetto dei suoi studi è una presa di posizione politica: il vastorepertorio metodologico usato dalle analisi sociologiche sulle migrazioni (etnografia, analisi storica, statistica e mediatica), infatti, è inutilizzabile se non è alimentato dall’«osservazione partecipante» del ricercatore. La sua impostazione permette di leggere i complessi fenomeni di emigrazione e di immigrazione come un «fatto sociale totale», la mobilità umana appunto, nella quale, da un lato, si rispecchia l’organizzazione sociale e politica esistente e, dall’altro lato, l’aspirazione individuale all’emancipazione propria di ogni migrazione. Un’aspirazione che traduce un atto politico, quello di decidere liberamente sulla propria vita, quando la vita riserva solo un destino di privazione, miseria o infelicità. Palidda pratica uno sguardo trasversale sull’emigrazione europea verso il «nuovo mondo» all’inizio del Novecento con i movimenti migratori che hanno investito l’Italia, e l’intero mondo occidentale, nell’ultimo ventennio. Fenomeni certamente distinti, ma che se indagatiportano alla luce una serie di costanti nelle politiche migratorie contemporanee. Il migrante, infatti, minaccia la pretesa che una cultura coincida con un territorio, è un individuo che crea un ibrido, o una «strategia di meticciamento», una sfida alla quale di solito gli stati rispondono con l’inquietudine delle politiche sicuritarie o, nella formulazione di Michel Foucault, con il «razzismo di stato». Caccia ai migranti Questa dinamica è squadernata sotto i nostri occhi almeno dalla fine degli anni Ottanta del XX secolo, quando le pratiche dei paesi ricchi nei confronti delle migrazioni iniziano ad oscillare tra una relativa tolleranza e la guerra alla clandestinità. L’intreccio di questi diversi aspetti può essere resa con l’immagine della «porta girevole» attraverso la quale parte dei cittadini dei paesi d’immigrazione e parte dei migranti accedono all’integrazione. Il paradosso di questo fenomeno risiede nel contrasto fra l’auspicio ufficiale di integrazione pacifica eregolare e, dall’altro, le pratiche che riproducono l’irregolarità nonostante il continuo ricorso a sanatorie. Per Palidda, questo meccanismo della «porta girevole» è una conseguenza dell’attuale sviluppo economico che si avvale solo in parte di manodopera regolare e stabile, mentre richiede lavoro precario, flessibile, iperproduttivo, a costi contenuti, spesso inferiorizzato dal punto di vista sociale. La trasformazione intervenuta dagli anni Novanta, in corrispondenza dell’aumento mondiale dei flussi migratori, descrive il cambiamento della natura politica del neo-liberismo, in particolare nei confronti della cittadinanza. Esso ha prodotto ad un ordine sociale e politico precario indotto dalla gestione sicuritaria dei migranti, sospesi tra la legalità e l’illegalità, in quella terra di nessuno dove le possibilità di una vita pacifica sono condizionate alle esigenze contingenti del potere politico e non al rispetto dei diritti fondamentali. E’ proprio questo il senso del«proibizionismo» applicato alle politiche migratorie che riproduce l’irregolarità ed assicura la richiesta di manodopera da parte delle economie sommerse, in particolare nel lavoro edile delle grandi città e in quello agricolo stagionale, come denunciato da un recente rapporto di «Medici senza Frontiere». Palidda individua inoltre un problema «strutturale» nelle politiche migratorie «neo-liberiste»: l’idea cioè di ridurre l’integrazione dei migranti al modello della società industriale che subordina il rilascio del permesso di soggiorno al possesso di un contratto di lavoro a tempo indeterminato e di un domicilio regolare. È evidente che questa impostazione, comune tanto alla «destra» che ha voluto la Bossi-Fini quanto alla «sinistra» che loda la legge spagnola approvata dal governo Zapatero, riproduce la clandestinità che vorrebbe combattere. È infatti improbabile che un migrante abbia questi prerequisiti prima di arrivare nel paese di destinazione. Egli dovrà passare un periodoindefinito da clandestino per conquistarsi il suo permesso di soggiorno. Le sanatorie sono dunque necessarie, ma funzionali alla riproduzione di questo sistema. Liberalismo tradito Nella storia delle migrazioni, conclude Palidda, non sono mai mancate congiunture nelle quali l’abbandono dell’irregolarità da parte dei migranti è stato reso difficile. Ciò che oggi sembra nuovo nella «lotta all’immigrazione clandestina» è il suo essere parte di una politica che intende ogni forma di eccezione, irregolarità, singolarità umana come declinazione dello stesso nemico. In questo nuovo contesto, la «guerra alle migrazioni» del neo-liberismo, che tende a ridurre le migrazioni a semplice comportamento criminale, fa parte di una trasformazione più ampia che negli ultimi anni è stata alimentata anche dalla «guerra contro il terrorismo», modificando profondamente le regole dello «stato di diritto», oltre che gli stessi principi del «liberalismo» ai quali la maggioranza schiacciante deidirigenti politici pretende oggi di ispirarsi.de Il Manifesto
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