Nasce a Cannes un -bruto stil nuovo-
 







di Roberto Silvestri




«Shakespeare avrebbe amato il cinema alla follia», ipotizzava Derek Jarman presentando anni fa la sua Tempesta, tra le poche trasposizioni per lo schermo altrettanto punk, appassionate e barocche (non ne troverete cenno nei dizionari alla moda). Ma sarebbe sicuramente rimasto perplesso di fronte alle scelte della giuria di Cannes 61 e al futuro di quest’arte chiamata cinema. Perché è un verdetto errato.
C’è del «finish» imponderabile nelle decisioni della giuria di questa edizione (metà europea, metà extraeuropea, ma tutta un po’ «francese»), che va compreso, anche perché la griglia di partenza, nonostante le molte pressioni che il festival «migliore del mondo» subisce, è stata ben organizzata da Thierry Fremaux (meno il festival nel suo complesso, più militarizzato e disagevole), per la prima volta senza le briglie di Jacob...
La Francia vince con un film, Tra i muri (già Mikado), che molti vorranno vedere. Il filone «liceale» (semicarcerario) va semprefortissimo. Ma qui c’è una sostanza conoscitiva più «spessa». Un lavoro sociologico che è stato iniettato dentro i corpi glamour di una ventina di ragazzi plausibili, non manichini da Grande Fratello, professori e impiegati della periferia (il 20° di Parigi). Chi li capisce, poi, questi ragazzi di oggi? Perché giocano male con i vecchi valori e non ne costruiscono di presentabili? La «semplicità» dello stile di Cantet (Risorse umane, L’impiego del tempo) amplia le domande, non dà mai risposte, ma non esige mai indignazione neanche di fronte ai soprusi più ignobili (aborre la nascita della «finzione» classica, adora l’asetticità ideologica, io direi etica, imperante). Questo gesto (premiato dalla giuria anche del Certain regard) è diventato sinonimo di onestà mediatica, e spacciato come merce rara in un mondo immaginario così zeppo di traffici illeciti (che evidentemente piace contemplare ma non sciupare: l’estetica della camorra è un po’ punk; Andreotti non è volgare stragista maBelzebù; Tulpan è exotico-erotico...). Qualcuno (ideologico?) ha trovato la trascrizione sullo schermo del lavoro di Francois Begaudeau «color pastello» rispetto alla realtà bruta del set «aula» e sciovinista il finale: è espulso dalla scuola l’indocile nero innocente, e nessuno fiata. Insomma torna di moda vedere il mondo senza levarsi gli occhiali rosa, neppure davanti all’immondo. Andrà in prime time tv la tragedia dei due minifolli camorristi che sfidano la Camorra perché sono gli unici Che superstiti?. Naturalmente, per noi, grazie a Garrone e Sorrentino, sfiorare il podio più alto come ai vecchi tempi, come nel 2001 con Moretti, e non con uno ma addirittura con due film controversi, ma comunque non riconciliati, è da accogliere come un segnale positivo del clima di lavoro che si era riformato attorno all’industria nei due anni trascorsi. Per i prossimi cinque anni, invece, a meno che le giurie saranno formato secondo lo stile dei David di Donatello (votano ancora i generali deicarabinieri e i magistrati amici di Gian Luigi Rondi e di Andreotti?) rimpiangeremo questo giorno.
È vero, anche a noi, come a Penn&Co. (una giuria generazionalmente compatta, giovane e militante), piace il cinema che si impegna «in modo differente» e sperimenta al di là o al di qua del documentario, dei generi classici e della messa in forma drammaturgica convenzionale. E Cantet, Garrone, Sorrentino, Bilge Ceylan, i Dardenne e Salles, cioè i premiati di Cannes 2008, anche se partendo da archivi iconografici privati e eterogenei, sperimentano d’impegno. Sia sul degrado metropolitano (i marroni sporchi di Garrone e Salles), che sugli orrori della politica senza più fede (le commedie «atroci» di Sorrentino e Bilge Ceylan) e, tenendo sottotraccia tutto questo, anche sulle contraddizioni della civiltà occidentale alle prese, a cominciare dalla scuola, con l’addomesticamento» delle culture e tradizione altre, più illuministe di quanto non si pensi (la Palma d’oro Entre le murs diCantet, che si avvale di un poderoso lavoro prefilmico di costituzione d’oggetto e di set).
Ma quando lo scontro è, da una parte, tra un cinema che esplora e che trova e, dall’altra, un cinema che esplora e trova poco più che belle immagini, anzi si rifiuta, a un tratto, di appassionarsi completamente al proprio soggetto, in nome della sensibilità vigente che trova oscena l’esibizione di un franco «punto di vista», o dello stile del tempo che adora non dissimulare il proprio «atteggiamento oggettivo» o di quella strana rigidità formale che è ormai l’«esperanto festivaliero», preferiamo di grand lunga i primi. E dunque «gli inattuali» sciabolatori di forme contundenti che si chiamano Eastwood (premio al classicista matusa), Desplechin (e la Deneuve omaggiata come arcaica musa delle nouvelle vague), Soderbergh, Garrell, Jia Zhangke, Egoyan e Wenders. Non è la griglia di partenza o l’ordine d’arrivo di un festival che importa. Quanto la scoperta. Piace un bruto stile novo, «né con idoc né con la fiction».de Il Manifesto









   
 



 
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