MARIO MONICELLI: UNA LUNGA VITA PER IL CINEMA.
 







di Antonio Napolitano




In una recente intervista, il regista Mario Monicelli,93 anni, ha detto di "esser pronto" a debuttare come documentarista".
Sarà un suo omaggio al rione Monti di Roma dove vive ormai da 25 anni  con spole frequentissime con Cinecittà nel corso della sua lunga attività.
Egli è un toscano di Viareggio ivi nato il 16 maggio 1915 ed ha alle spalle un curriculum straordinario se si pensa che, già nel 1935, presentava alla Mostra di Venezia una sua pellicola "I ragazzi della via Pal" (da Molnar), ottenendo un premio al "Concorso per giovani amatori", insieme al coautore A.Mondadori.
Dopo un tirocinio di aiuto regista e sceneggiatore (per A.Genina, M.Camerini e P.Germi), gira, in collaborazione con Steno, "Al diavolo la celebrità!" (1949), prova riuscita solo a metà con un poco riconoscibile Mischa Auer, trapiantato in Italia, nel declino della carriera.
L’anno dopo, sempre con Steno, realizza "Vita da cani" con A.Fabrizi un brioso  film sulle vicissitudini di una compagnia di attore del varietà, tra Roma e Milano.
E, c’è poi il felice incontro col talento comico di Totò in vertiginosa ascesa. Con lui i due autori fanno lo spassoso "Totò cerca casa" (1949) e, poi "Guardie e ladri" (1951) (con Fabrizi comprimario di alto rango e sceneggiatura di Flaiano, Maccari e Brancati).
Anni dopo, con l’innata modestia che lo distingue, Monicelli dichiarava: "Si, forse ho favorito il passaggio di Totò al neorealismo... limitandone la precedente comicità surreale".
Nello  stesso ’51, da solo, dirigerà "Totò e Carolina" storia satura di pathos, osteggiata dalla censura (andreottiana) preoccupata del "leso decoro" dell’agente di P.S. interpretato con verve ma con dignità dal "principe della risata". E, per uscire, il film subirà tagli pesanti.
Nel 1952, comunque, in coppia con l’amico Steno ritorna a realizzare l’ottimo "Totò e i re di Roma", in parte su trame cechoviano e poi ancora, "Totò e le donne" (1953), cose che innalzano il livello del produzione media (a cascata), che ha il perno nel comico napoletano sempre meglio valutato da saggisti e intenditori.
Da solo, invece, Monicelli nel 1955, si avvale di Alberto Sordi per "Un eroe dei nostri tempi", ritratto (alla Daumier) di un opportunista che però finirà anche lui "incastrato".
Ed è un cast di prima scelta che va da Franca Valeri a Tina Pica  a Leopoldo Trieste etc.
Nel ’57, un’altra equipe eccezionale partecipa a "Il medico e lo stregone" e sono presenti, in fatti , A.Sordi, V.De Sica e M.Mastroianni.
È quasi pleonastico menzionare il famosissimo “I soliti ignoti” (1958) che otterrà la “Vela d’oro” a Locarno e due “Nastri d’argento” E a Parigi ci saranno file per settimane per vedere “Le pigeon” (Titolo francese per questo film dalla splendida sceneggiatura e con Totò, Mastroianni, Gassman e gli altri che impersonano questo gruppo di perdenti e balordi che pretende fare il “gran colpo”.
Due anni dopo il
regista realizzerà "La grande guerra" che descrive le peripezie di due richiamati alle armi furbastri e lavativi,  i quali ritroveranno nella morte la loro dignità di uomini.
A Venezia il film riceverà "Il Leone d’oro", più che meritato per la fusione perfetta tra satira e dramma e per la interpretazione dei due mattatori, Sordi e Gassman, tenuti a bada nella giusta misura e capaci di sottili trasmutazioni psicologiche.
Il 1960 sarà l’anno di "Risate di gioia" con Totò e Anna Magnani (bionda) plausibile storia in cui Monicelli dosa con abilità allegria e amarezza sullo sfondo del falso luccichio di mille paillettes.
Nel 1962, l’episodio "Renzo e Luciana" (sceneggiata di I.Calvino e G.Arpino)rappresenterà il primo approccio ai problemi social-sindacali, ripresi poi ne "I compagni" (1963). In ambedue i casi, messa da parte  ogni graffiante ironia, il regista rivela tutta la sua simpatia per questi lavoratori tartassati  da duri orari di fatica. E Mastroianni coopera bene nel tener lontana ogni tentazione deamicisiana facile a insorgere in questi argomenti.
Il ritorno al primo divertissement sarà, nel ’66, "L’armata Brancaleone", un grottesco pseudomedievale con un gergo antico passato in proverbio e con un Gassman al top del suo gigionismo declamatorio, irresistibilmente comico.
Dopo alcune cose minori (e un pò di evidente stanchezza), nel 1977 c’è una parentesi di stile tragico-grottesco, da un racconto di V.Cerami "Un borghese piccolo piccolo". In esso Sordi centra a pieno il personaggio che opererà la sua sadica rappresaglia contro il rapinatore che gli ha ucciso il figlio sparando a casaccio nel corso di un colpo. Qui Monicelli sa bene estrarre il pus che vien fuori da certi fatti di cronaca della nostra epoca violenta.
Meno persuasivo oltre che affidato troppo al suo prevaricante dialetto, appare nel ’82  "Il Marchese del Grillo". Lo stesso può dirsi per "Bertoldo, Bertoldino e Cacasenno" (1980)  in cui spicca il solo Lello Arena che sa aderire strettamente al suo ruolo.
Un nuovo interessante decollo viene attuato, invece,  con "Speriamo che sia femmina"(1986), in cui è ritratta una galleria di volti di donne, con attrici del livello di Liv Ullman e Catherine Deneuve. Qui il regista non perde un solo grammo del suo sale attico e la vicenda scorre "in oscillazione continua tra leggerezza e gravità" (M.Morandini).
È del 1990 "Il male oscuro" (da Berto) che appare un tema alquanto fuori dalle corde del nostro, che sempre ha rivelato un sorprendente eclettismo. Sarà più apprezzato in Francia, dove la critica parlerà di "uno studio dolce-amaro sulla nevrosi di un scrittore" (J.L.Passek).
E, l’anno dopo, ancora un salto laterale, ma con caduta all’in piedi, è "Rossini, Rossini" del 1991, cioè la vita del signor Crescendo (un Ph.Noiret impagabile che, nella parte raffigurante il tramonto del musicista, sfuma con fine ironia gli scatti dell’umore  e i soprassalti dell’ancora viva
genialità).
Nel 1992, "Parenti serpenti" è una commedia sul costume contemporaneo, che non concede sconti all’ipocrisia dei cosiddetti "affetti familiari". Con pungente realismo si mostra l’insofferenza  dei quattro figli verso gli anziani genitori, fino a quasi spietate conclusioni. Vi dominano le prestazioni perfette di Marina Confalone e Alessandro Haber, mal coadiuvati dagli altri.
Alquanto risaputa è, al contrario la performance di P.Villaggio in "Cari fottutissimi amici" (1994) un ritorno ad uno dei temi più superficiali già trattati in negli anni precedenti.
E nemmeno riuscito appare  "Facciamo paradiso" (1995) in cui si rievoca il ’68 in modo piuttosto confuso, come, del resto, il periodo postbellico, tra speranze e delusioni.
Il disincanto del regista appare evidente e si salvano appena due o tre "macchiette" rese da L.Arena e M.Ovadia, nel corso della frettolosa cronistoria.
Nel 1991, "Panni sporchi" è una ripresa felice della satira più mordace. Con essa, Monicelli toglie le croste dei vizi che si vanno cronicizzando nel nostro Bel Paese tangenzialista e sgomitatore, e in cui hanno la meglio il pressapochismo e l’incompetenza più arrogante.
Nel 2000, il regista accetta di fare, per la RAI TV, "Come quando fuori piove". È un risultato poco valido di chi manovra un linguaggio di immagini non consono alla propria diversa esperienza (e ha passato giorni di lavoro in un clima ostico  alla sua naturale indipendenza di carattere).
Il 65° film firmato da Monicelli sarà, nel 2006, "Le rose del deserto", dal diario di guerra in Libia di M.Tobino. In esso, l’imperialismo straccione del fascismo è inquadrato dal basso e ne arriva così a scrutare incongruenze e vergogne.
Insomma anche un sintetico excursus come questo testimonia del fatto che è vasto ed interessante il contributo del regista toscano al cinema in un settantennio di operosità.
Esso, in realtà, ha stentato ad ottenere un giusto riconoscimento perché una critica seriosa ha ritenuto il genere "commedia" praticato da Monicelli un’arte secondaria (e, spesso, l’ha equivocata per quella cosiddetta "all’ italiana" ben più andante e raffazzonata).
Ha dimenticato, cioè, che tale genere è stato praticato, nei secoli, da grandi autori in pari dignità con drammi e tragedie (basti pensare a Shakespeare e Corneille, o a Pirandello e Brecht).
E, così, non poche opere filmiche, a cui si è fatto riferimento, pur divertendo e disegnando i più vari caratteri, hanno mirato con sagace sguardo ai malesseri della nostra vita sociale, metaforizzandoli con indelebile icasticità.
                                                                            









   
 



 
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