Mentre tante TV continuano ad inquadrare gli andirivieni di divi e starlet sui "red carpet" (!) degli inflazionati Festival, sarà utile sapere che, lontano da quelli abbaglianti "padelloni" sono al lavoro oltre ad ottimi registi, molte cineaste che non scomitano affatto per tale effimera visibilità. E i nomi son presto fatti: dalla Cavani alla De Lillo, dalla Torrini alla Archibugi etc. Registe, tra l’altro, vistosamente assenti anche in un "Almanacco del Cinema italiano" (2006) di chiara tendenziositа che saltava a piè pari pari perfino i Moretti e i Martone, i Tornatore e i Nichetti. Dunque, Francesca Archibugi,romana non ancora cinquantenne, ha iniziato con qualche esperienza di attrice per poi diplomarsi in regia al Centro Sperimentale. Farà, poi, un proficuo tirocinio al centro di Bassano diretto da E.Olmi, realizzando alcuni cortometraggi, negli anni tra l’81 e l’84. La vera attività professionale avrà inizio con "Mignon è partita" (1988) delicata indagine sulle ferite sentimentali che possono subire gli adolescenti. In tale film appare evidente la sobrietà con cui lo sguardo della regista sa muoversi verso certi problemi della nostra società, percependo in minimi segni grandi vibrazioni. Giustamente annoterà T.Kezich "non si rileva nè una stecca nè una dissonanza..." e parlerà di "orecchio assoluto". Nel 1990 con "Verso sera" verrà affrontata un’altra emergenza, cioè quel gap generazionale che, in questa fattispecie, vede faccia a faccia un anziano intellettuale di sinistra (Marcello Mastroianni) e una ragazza del "Movimento dell’77" (S.Bonnaire). Risulta notevole l’equilibrio narrativo bene lontano sia dalle utopiche denunce che dalla faziosità parolaia di chi "vorrebbe tutto". E un uguale problema d’attualità è messo a fuoco ne "Il grande cocomero" (1993) che fornisce un accorato ritratto di una patologia infantile, con la parte dello psichiatra affidata al misurato talento di Sergio Castellito. In tal modo la cinepresa della Archibugi riesce a penetrare con vellutata discrezione negli ambienti della vicenda e ad accennare con rapidi flash ai retroterra familiari di tali difficili situazioni. "Colpisce la fermezza dello sguardo e la capacità di osservare i comportamenti senza alcun compiacimento" è il commento dello storico G.P. Brunetta nell’suo "Cento anni di cinema italiano" (1995). Nè meraviglia la scioltezza della sceneggiatura se si ricorda che la cineasta, nel 1986, ha vinto anche un premio "Solinas" per tale non secondaria attività. Con essa, infatti, riesce a sottrarsi alle solite litanie sociologiche che spesso servono a vanificare l’analisi delle reali sofferenze degli individui. Una svolta letteraria, invece si avrà nel 1994: "Con gli occhi chiusi" ( dal bel romanzo di F.Tozzi) è comunque un’opera di estrema finezza che esplora dall’interno un evento negativo dell’esistenza. Più ampia eco otterrà, quattro anni dopo, "L’albero delle pere" in cui è trattata una vicenda dei nostri giorni, quella dei figli travagliati dal dramma della madre tossicomane. Essa è svolta, al solito senza inalberare vessilli di autentica (o speculativa)solidarietà e sono lodevoli le performance della V.Golino e di S.Rubini. Appare, soprattutto, cancellata del tutto quella nomea di autrice di un "cinema carino" e "complice dei personaggi raccontati" messa in circolazione dagli ipercritici. A conferma arriverà nel 2001 "Domani" una sorta di "docudrama" su un terremoto che ha sconvolto un piccolo paese dell’Umbria verde. Senza distogliere l’attenzione dal panorama generale è assiduo l’aggancio con le vicissitudini individuali; in particolare, è da rimarcare la capacità registica di dar nuovo smalto ad attrici quali O.Muti e I.Occhini in ruoli per esse inconsueti. Purtroppo anche questo film godrà di assai scarsa pubblicità, che ormai, è prodigata precipuamente verso il blockbuster più puerili e/o horrorosi. Tutto ciò, probabilmente, avrà indotto l’Archibugi ad accettare di rivisitare per la TV "I promessi sposi" ("Renzo e Lucia",2004). In tale ennesima trasposizione, risultano ben plasmati i due mattatori, P.Villaggio come Don Abbondio e C.Cecchi nelle vesti del cardinale Borromeo. La novità è da trovarsi nelle cadenze dialettali che un pò rinfrescano il risaputi dialoghi (cosa, forse, che non sarebbe spiaciuta a Don Lisander). Qualche delusione, al contrario, ha offerto il più recente lavoro della cineasta: "Lezioni di volo" (2007) (nonostante la ricca coproduzione indo-europea). Rischiosa si rivela, infatti, l’ambizione di seguire gli itinerari di otto (o nove) diversi personaggi, il che riduce il loro rilievo psicologico e ingenera qualche confusione con i troppo rapidi intarsi. Ma resta intatta la simpatia umana per i due immaturi liceali (Apollonio e Curry) che si troveranno, per la prima volta, nel loro viaggio in India, a fronte delle vere sofferenze umane. E dignità e misura sono certamente riscontrabili nel interpretazione data da G.Mezzogiorno del personaggio della giovane ginecologa andata lì in missione umanitaria. Nel complesso, quindi, da quanto finora realizzato dalla Archibugi, si può dedurre che il positivo supera di gran lunga il negativo. (E per lei si è arrivati a citare, non del tutto immotivatamente, Cechov e la Mansfield .) È un fatto, comunque,che essa ha mantenuto una solida coerenza di stile, senza alcuna resa alle tendenze odierne di una affabulazione "vampiresca" dedicata allo shock e, con l’appena dissimulata mira alla "dea cassetta", figlia di Mammona.
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