C’è una vecchia canzone partigiana che dice: «La mia mamma me lo diceva, non andare sulle montagne mangerai sol polenta e castagne ti verrà l’acidità». Questa disincantata relazione fra resistenza e mal di stomaco mi è venuta in mente leggendo uno degli interventi raccolti nel bel libro di Sergio Luzzatto, Sangue d’Italia. Interventi sulla storia del Novecento (manifestolibri, pp. 220, euro 20), dove lui commenta un passo in cui Italo Calvino ipotizza un racconto sulla Resistenza che «avrebbe descritto il partigiano come un uomo condannato a non mangiare altro che castagne, dunque guastato dall’avitaminosi». Certe volte, quello che intellettuali e storici vedono come un audace esperimento anticonformista contro la retorica della Resistenza corrisponde a quanto i meno retorici dei partigiani già avevano detto di sé nel dar conto in termini antieroici della propria esperienza. Certe mitologie sui partigiani tutti buoni e santi e votati al sacrificionon reggono all’ascolto di fonti interne alla Resistenza, a canzoni come quella della Brigata Gramsci in Umbria, in cui i partigiani piombano su un reparto fascista impegnato in un rastrellamento (e più numeroso e meglio armato di loro) «come lupi tanto rapidi e assetati di quel sangue traditor». Né santi né eroi, solo partigiani Sono loro, ben prima di Gianpaolo Pansa, a riconoscere in sé le trasformazioni indotte dalla pratica della guerra e dal confronto permanente con la morte. Solo che poi si pongono anche il problema di elaborare quell’esperienza, e di cambiare. Uno di quei partigiani: «Tu quando sei stato otto nove mesi, un anno in montagna, vieni giù, sei ’na mezza bestiola. Non ci stanno santi. Non sei un òmo normale. Io oggi dico: ero na bestia. Tu sei sceso dalla montagna con quell’odio continuo, continua la guerra, le armi, t’aspettavi sempre la schioppettata alle spalle: allora ti sei caricato talmente che prima che ti mettessi in linea, non è stato facile, non èstato facile». Riprendo questi ragionamenti sulla memoria partigiana perché il rapporto complicato fra esperienza resistenziale, memoria e retorica è il centro storiografico ed emozionale del libro in cui Sergio Luzzatto ha raccolto gli interventi su giornali e riviste in cui, recensendo e commentando libri e pubblicazioni di storia di ogni provenienza, finisce per comporre un controcanto critico a tutta la storia italiana del Novecento, dalla prima guerra mondiale alla contemporaneità, dove l’occasionalità degli interventi si stempera nella profonda coerenza dell’approccio e del metodo. Sono due gli elementi di forza del discorso di Luzzatto: la rivendicazione, contro ideologismi e strumentalità, della professione dello storico; e la posizione generazionale che gli permette, una volta data per assodata e condivisa la valenza politica e morale dell’antifascismo e della Resistenza, diventa anche possibile prendere le distanze da miti e retorica e cercare di ragionare sulle fonti e, perquanto possibile, sui fatti. In un certo senso, possiamo dire che Luzzatto sottrae ai revisionisti l’arma della dissacrazione. Come dice il partigiano ternano, ma in un altro senso, «non ci stanno santi»; ma spogliando laicamente la nostra storia dai miti, ne resta quel nucleo essenziale di moralità che anima i Fenoglio, i Meneghello, certo Calvino, che sono per Luzzatto gli interlocutori e testimoni più frequentati. Gli indifendibili In altre parole: si può e si deve essere critici nel rapporto con la Resistenza e l’antifascismo senza per questo unirsi al coro stonato dei detrattori. Non a caso, le pagine più polemicamente coinvolgenti e anche divertenti sono proprio quelle in cui Luzzatto fa i conti con l’uso pubblico reazionario della storia: gli indifendibili libri di Vespa, quelli di Pansa (che lui giudica anche peggiori), il «caso» Pierangelo Buttafuoco, le menzogne autobiografiche di Giorgio Albertazzi, o l’intervento conclusivo sul pot-pourri astorico e ideologico diErnesto Galli della Loggia (sulle pagine del «suo» Corriere della Sera !). Peccato solo che alcuni di questi interventi, più articolati e quindi più lunghi della misura di una recensione da quotidiano, siano apparsi su riviste importanti ma certo meno diffuse del Corriere della Sera che ospita la maggior parte degli altri articoli. La Resistenza è il centro problematico e polemico del libro perché è oggi il tema politicamente caldo nell’uso pubbico della storia; ma il percorso di Luzzatto è più ampio, e copre tutto il cosiddetto secolo breve, con il medesimo approccio. Così, per esempio, proprio prendendo sul serio la modernità del fascismo e smontando l’idea che fosse solo burletta rende ancora più tagliente il giudizio politico e morale su un regime non solo violento e repressivo ma anche eticamente corruttore (esemplari le pagine sull’Ovra). Ed è molto importante il fatto che - mentre sempre più la «memoria» sembra identificarsi solo con l’epoca della seconda guerra mondiale, laShoa, la Resistenza - Luzzatto porta avanti la discussione fino al presente, fra l’altro con gustose e utili escursioni nel campo della cultura di massa, dal libro di Anna Bravo sul fotoromanzo a quello di Gianni Brera sul calcio all’italiana. Magari, avvicinandosi al presente, la distanza generazionale si attenua e traspira a volte, per esempio nei toni degli interventi sul Pci, l’ideologia (sempre peraltro filtrata attraverso la severità dell’approccio storiografico). E certe volte il flip side della professionalità storiografica classica paga pegno all’autoriflessività delle fonti, che in fondo parlano sempre soprattutto di quelli che le hanno prodotte. Il comunismo e i comunisti in Italia erano forse una cosa più vasta e quindi più sfuggente di quanto non lascino intravedere le fonti archivistiche e i carteggi dei dirigenti; e lo stesso vale in generale per i grandi movimenti. A proposito del ’68, per esempio, Luzzatto legge con intelligenza il libro fotografico di Uliano Lucasintitolato appunto Sessantotto , non tanto come una peraltro impossibile descrizione del ’68 «com’è veramente stato» quanto come una rappresentazione del ’68 che molti militanti, scrittori, fotografi, artisti proiettavano o cercavano di formare. Ma non si lascia sfuggire che i ritratti di Stalin, Mao e Che Guevara portati in corteo «testimoniano fin troppo quanto gli uomini e le donne del Sessantotto subissero il fascino della violenza levatrice di storia». Giusto. Erano tempi così, e capiamo meglio quei ritratti se ampliamo il contesto dei tempi. La violenza levatrice della storia gli stava tutto intorno, praticata da governi liberal-democratici (a proposito: quanti miti e bugie su John Kennedy!) dalla Baia dei Porci a Santo Domingo al Vietnam, dagli assassini di Lumumba, dei Kennedy, di Malcolm X, di Martin Luther King all’occupazione militare della Palestina - fino all’evento che segna davvero la svolta del ’68: la bomba a piazza Fontana e la strage di stato. Davanti a esempisimili, in un contesto del genere - e senza voler santificare niente e nessuno - era difficile credere di poter fare altrimenti. Il miracolo (o, più laicamente, il problema storiografico e morale) è come mai nel movimento ci fossero ancora, e lasciando anch’essi tracce profonde, quelli che sentivano diversamente (forse non tanto in termini di non-violenza alla Capitini, che pure c’erano, quanto pensando alla violenza come l’estrema ratio quando tutto il resto falliva. In fondo, persino le Pantere Nere si definivano «per l’autodifesa»). Di questo, forse, le fonti archivistiche e le autorappresentazioni pubbliche del movimento rendono poco conto. Il rifiuto delle menzogne Mi accorgo di avere usato continuamente, in questo articolo, la parola «morale». Questo è perché la moralità è infine centrale, come tema e come modalità, all’intero discorso di Luzzatto, non a caso in continuo dialogo con il libro di Pavone sulla «morale nella Resistenza». Uno potrebbe pensare che c’è unacontraddizione fra la neutralità della professionalità e la scelta di campo della moralità. In realtà non è così: per Luzzatto, la professionalità storiografica è in primo luogo una scelta morale, un rifiuto delle falsificazione, delle manipolazioni, delle menzogne «da qualunque parte provengano». Non c’è una storia di destra e una di sinistra, ribadisce Luzzatto: c’è una storia fatta con gli strumenti della ricerca e una fatta con il dilettantismo degli ideologi massemediatici. Se poi, almeno oggi, la cattiva storia è praticata soprattutto dal campo revisionistico di destra, non è certo colpa nostra, né sua.de Il Manifesto
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