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È stato un piacere apprendere, dalle cronache del recentissimo Festival di Cannes, che "Looking for Eric", ultimo film di Ken Loach, ha riscosso nutriti applausi da parte del pubblico (quasi quasi più esperto della stessa giuria, fatta di attrici e altri componenti interessati più ai "tappeti rossi" de "La Croisette" che all’Arte del Cinema). Nato a Nuneaton, (G.B.) nel 1936 Kenneth Loach è, di fatto, un erede del "free cinema", quello degli Anderson, Reisz, Richardson che, negli anni ’60, avevano inteso "realizzare pellicole al di fuori dell’industria e con un proprio punto di vista." Al loro stile e al loro spirito di indipendenza, Loach si richiamerà fin da quando per la TV, realizzerà il mediometraggio "Cathy, come home" (1967). Alla fine dello stesso anno egli girerà la sua prima pellicola per il grande schermo "Poor cow", con Carol White e Terence Stamp. L’impianto narrativo è ben lontano dalle trame tradizionali, visto che dà conto delle vicende di gente emarginata se non deviante . Joy, infatti, è una giovane sbandata che tenta di sopravvivere a suo modo, allorchè il marito finisce in galera. Non c’è denuncia sociale, ma profondo interesse umano come da parte di chi ha deciso, appunto, "di liberarsi dalle ipocrite convenzioni borghesi (altra istanza del "free cinema"). Nel 1969, con "Kes" si pedinano le giornate di un ragazzo che vive con la madre e un fratellastro nella banlieue di una cittadina del Nord inglese. L’occasione per sfuggire a tale clima oppressivo gli è data da un falchetto che egli alleva e ammaestra con delicata premura. Purtroppo, la bestiola verrà uccisa dall’invidioso "Caino". Il quasi-documentario è pervaso di sottile poesia con toni alla Wordsworth: "emozioni vissute in tranquillità". E "Kes" guadagnerà il Primo Premio al Festival di Karlovy Vary. "Family life" del 1971 è, invece, il ritratto di una ragazza angariata dai parenti poco comprensivi e assai bigotti. All’ennesima coartazione, ella reagirà in modo stralunato così da venir rinchiusa in una clinica psichiatrica. Si annusa qua e là un pizzico della collera sociale degli "angry young men", merito anche della felice immedesimazione della Ratcliffe con il personaggio di Janice. Dopo altre esperienze documentaristiche, sulla scia dei Grierson e degli Jenkins, verrà "Uno sguardo, un sorriso" (1981). È un prosieguo, a suo modo, di "Kes" anche se qui i ragazzi sono due e alla ricerca di un qualsiasi lavoro che riempirà le loro giornate. Del film dirà lo stesso Loach: "non si è voluto fare un lavoro sulla disoccupazione bensì sulle difficoltà che c’è nel maturare e nel diventare adulti". "La naturalezza degli attori, è, ancora una volta, stupefacente annota Ph.Pilard, nella sua "Breve storia del cinema inglese" (1996) che dedica molte pagine al regista. Al contrario, appare, girato un pò alla svelta "L’agenda nascosta" del 1990, un thriller politico sulla cospirazione di alcuni gruppi legati all’IRA. (E la proiezione solleverà roventi polemiche in tutto il Regno Unito). Anche "Riff-raff" (1991) risente del "engagement" anti-Thatcher e risulterà alquanto confuso per l’intrecciarsi di varie vicende individuale, vagamente collegate tra loro. Più scorrevole e simpatico sarà "Piovono pietre" (1993) ritratto umoroso di un senza lavoro che combina guai ostinandosi a voler fare bella figura alla prima comunione della figlia. C’è un tono picaresco che sdrammatizza la negatività e ricorda il nostro carissimo Zavattini. Ben più tormentata è la vicenda di "Ladybird, ladybird" (1994), una donna maltrattata fin dall’infanzia e poi adusa a promiscue relazioni. Verrà perciò posta sotto pubblica tutela e dovrà separarsi di quattro suoi figli, che, a suo modo, ella ama. Nè l’incontro col mite Jorge porrà fine alle sue traversie. Uno spiraglio di speranza si aprirà solo nel finale di questa "tranche de vie" scevra comunque di retorica populistica. Nel 1993, "Terra e libertà" narra del giovane inglese David che va in Spagna a combattere contro i falangisti. Assisterà, come accade a G.Orwell, alla decimazione degli anarchici e degli aderenti al POUM da parte dei filosovietici. È una cronaca storica dalla fortissima impronta di realtà e che ribadisce l’indipendenza di Loach certamente non "l’ultimo comunista dell’occidente" (N.Aspesi 2009) data la sua coscienza d’uomo libero. Meno convincenti saranno "La canzone di Carla" (1996) girato in Uruguay e "Il mio nome è Joe", appena salvati dall’interpretazione dei protagonisti non certo dalle metafore esistenziali. Nel 2000 con "Bread and roses" Loach riesce a meglio motivare dall’interno (e senza lagne) le istanze degli immigranti: stavolta si pone in primo piano la vicenda della messicana Maya che negli USA ha trovato un lavoro, seppur umile. La complicata realtà assume tanto più credibilità in quanto sfaccettata nelle sue più varie componenti non esclusi i momenti di ironia e buon umore. Nel 2002, Loach si avvicina al problema della droga con "Sweet sixteen". Con qualche penchant verso il "cineromanzesco" egli dà un quadro della desolante devastazione che la polvere bianca può portare in un ambito familiare. Nell’uso di attori "presi dalla strada" il regista comprova la sua capacità di delucidare un problema sociale in un discorso per immagini senza tesi prefabbricate. Nello stesso anno, egli parteciperà con un "corto" al film "11 settembre 2001", il giorno del mostruoso attacco alle "Twin Towers" di New York, con qualche digressione (storicamente poco attendibile) sui fatti del Cile dell’73. Dopo "Un bacio appassionato" (2004) in cui ritorna a sull’ardua questione dell’integrazione etnica, girerà, in Italia, un episodio di "Tickets" (2005) su tre tifosi del Celtic che vanno a Roma in treno per la partita con una squadra italiana. Essi vengono dipintiall’acido solforico, anche per il gergo dalla ridondante oscenità e per lo scarso senso di rispetto verso la famiglia di immigrati . Solo alla fine avranno un lieve fremito di rammarico che evaporerà, però, nell’imbarbarito disordine di Roma Termini assediata dagli ultrà italioti. Nel 2006, Loach tornerà a temi a lui più vicini con "Il vento che accarezza l’erba" (nell’originale "che scuote l’orzo"), una sorta di reportage in flash back sulla lotta dell’IRA negli anni ‘20. Una tragedia che non finirà nemmeno con l’armistizio, data la scissione tra gli stessi irlandesi (e colpisce la drammatica sequenza di un fratricidio "legalizzato"). La trama è percorsa da un sotterraneo tormento sul "sangue che chiama sangue", l’orrendo retaggio della razza che si suole dire umana. E, ancora, in "It’s a free world" viene trattato il problema degli immigrati: Angie, intraprendente donna si fa "sensale" di lavoro, senza ben calcolare i rischi e le difficoltà di tale mediazione. Ne sarа lei stessa vittima, fino a subire il sequestro del proprio figlio Jaime. Il ritmo degli dialoghi e delle azioni appare talvolta esagitato, e perciò, alieno dal chiarire le responsabilità dei diversi individui. Certamente, Loach è stato coerente nel rappresentare criticamente le costrizioni e le convenzioni vincolanti che gravano sulle strutture democratiche. Cosciente, però, come ha dichiarato che "non si può credere di cambiare il mondo con un film ma... almeno dare oneste informazioni ed emozioni,..". Alla base della sua cultura si ravvisa infatti quel "fabianesimo" radicale che fin dai tempi di G.B.Shaw e dei coniugi Webb è stato attento all’umanità degli "umiliati e offesi" pur senza velleità rivoluzionarie. E lo ha dimostrato con uno stile tutto fatti e con libertà di idee in un vivo contatto con le situazioni reali, dato l’innato empirismo che ha immunizzato l’Inghilterra dai rischiosi balzi oltranzisti e totalitari avutisi nel XX secolo.
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