Dei Lager, e della loro specifica raccapricciante funzione di tappa verso l’annientamento, molto è stato raccontato da romanzi, saggi, film, documentari. Eppure restava qualcosa d’inesplorato, qualcosa relegato ancora ai margini di ogni descrizione o racconto: ed è precisamente questa la materia dell’ultimo libro di Helga Schneider La baracca dei tristi piaceri (Salani, pp. 202, euro 14). Nata nel 1937 a Steinberg, nell’attuale Polonia, da genitori austriaci trasferitisi successivamente a Berlino e da più di quarant’anni residente in Italia, la Schneider - con una storia dolorosissima alle spalle, la madre che l’ha abbandonata nel 1941 per arruolarsi nelle SS - è autrice di numerosi libri sul nazismo ( Il rogo di Berlino , Porta di Brandeburgo , Il piccolo Adolf non aveva le ciglia ), alcuni dei quali destinati agli adolescenti, come Stelle di cannella e L’albero di Goethe . La baracca a cui fa riferimento il suo ultimo romanzo è il bordellocostruito a Buchenwald per decisione di Heinrich Himmler, capo delle SS, che in tal modo pensava di incentivare la produttività dei deportati. Una storia rimossa e sconvolgente, di donne doppiamente prigioniere - del lager e del bordello - che la Schneider mette in scena con lucida incisività, attraverso l’espediente narrativo di un incontro tra l’anziana deportata Herta Kiesel e la giornalista Sveva, venuta a Berlino per un convegno. Di questa storia, rimossa dalle ricostruzioni ufficiali, perché tuttora scomoda, parliamo con l’autrice. «Il libro mi frullava in testa già da anni - racconta -. Volevo aggiungere un anello a questa lunga catena di soprusi e violenze sessuali che le donne subiscono fin dall’antichità, e questo scampolo di storia era ancora da esplorare. Nel 1942 Heinrich Himmler ordinò la costruzione di bordelli in quasi tutti i grandi campi di concentramento come Mauthasen, Dachau, Neuengamme, Sachsenhausen, Auschwitz e Buchenwald. In quei bordelli furono collocateprigioniere che venivano dal lager femminile di Ravensbruck e fu loro imposta la prostituzione coatta con i detenuti del lager». Non c’era alcuna ricerca sull’argomento? Nel 1995 due storiche tedesche hanno realizzato un reportage davvero interessante sulla prostituzione praticata nei bordelli intervistando due sopravvissute. Una televisione tedesca l’ha divulgato ma non ha avuto nessuna eco di rilievo. È ancora radicata, nella collettività tedesca, l’idea che sia meglio non tornare su un territorio così imbarazzante. La prostituzione era formalmente vietata dal regime nazista, eppure era ufficializzata dalle SS, che anzi ne traevano guadagno: infatti, incassavano il denaro che i prigionieri pagavano al bordello, al Sonderbau. Per questo il fatto è stato rimosso: motivo in più per raccontarlo. Ancora oggi nei campi di concentramento non c’è alcun cartello che segnali queste baracche e nei libri di storia non se ne parla. A suo avviso, ci sono altricapitoli oscuri del nazismo da esplorare? Si è parlato poco dello sterminio di disabili e persone con problemi mentali, e anche di quegli orribili esperimenti per guarire l’omosessualità che descrivo fedelmente nel mio libro e che furono ideati dal dottor Carl Vaernet, un criminale rimasto impunito che fino agli anni Sessanta ancora esercitava in Argentina. Un altro argomento tabù è l’abuso sessuale. Il mio romanzo per adolescenti L’albero di Goethe non è stato ancora tradotto in tedesco perché racconta una storia scomoda: l’albero di Goethe che si trova all’interno del bosco di Buchenwald, proprio ai margini del lager, era il luogo in cui le SS abbordavano i prigionieri di dodici, tredici anni e ne abusavano in cambio di pane, sigarette, medicine. Ritornando a quest’ultimo libro, come si è documentata per raccontare la storia di Frau Kiesel? Ho letto moltissimi libri di storia, naturalmente, e in particolare il libro del giornalista e politologoEugen Kogon, Lo stato delle SS , un resoconto ben documentato del lager di Buchenwald che descrive dettagliatamente quello che succedeva nel bordello. Le testimoni dirette ormai non ci sono più, ma anche quando avrebbero potuto raccontare, subito dopo la guerra, non lo hanno fatto. Perché le donne che erano state nel bordello si vergognavano, al punto da rinunciare a chiedere il risarcimento a cui avrebbero avuto diritto. Avvertivano la completa mancanza di quella solidarietà che di solito si prova verso le vittime. Perfino i loro compagni di prigionia le avevano considerate prostitute e non vittime, anche loro, di un regime criminale. Ha potuto conoscere, almeno, le figlie di queste donne? A Berlino vive una mia cugina della mia stessa età, che spesso mi aiuta a contattare persone importanti per la mia ricerca. È lei che mi ha fatto conoscere la figlia di una donna che era stata nel bordello di Auschwitz. Mi sono trovata davanti una donna piegata dal doloredella madre, e che sua volta ha dovuto fare grandissimi sforzi, con l’aiuto di uno psicoterapeuta, per non riversare questo carico di sofferenza su sua figlia. Questo ha prodotto il nazismo: tragedie che si tramandano di generazione in generazione. E mi è sembrato di rivivere qualcosa di personale. Avevo portato mio figlio bambino con me, a Vienna, per fargli conoscere sua nonna. Ma nel ’71 non lo sapevo nemmeno io che mia madre mi aveva abbandonato per arruolarsi volontaria nelle SS, per diventare sorvegliante a Birkenau. Quando ho scritto Il rogo di Berlino mio figlio, adulto, viveva già fuori casa e il suo rancore verso di me è aumentato perché ho raccontato a tutti, con quel libro, che mia madre era stata una criminale di guerra. Mio figlio ancora mi colpevolizza di aver avuto questa madre. Non se ne esce, da situazioni come queste. Avrei voluto non dover parlare con la figlia di quella deportata di Auschwitz perché mi ricordava la storia tra me e mio figlio. Di segno opposto, peròugualmente dolorosa. Lei ha dedicato a sua madre un’opera di un’intensità dolorosa quasi insostenibile, "Lasciami andare, Madre". Ho rivisto per la seconda volta mia madre nel ’98, come racconto nel libro. Aveva quasi novant’anni e qualche tempo dopo è morta. Ma il rapporto con lei non si è risolto, non poteva risolversi. Una bambina che viene lasciata da sua madre a quattro anni riceve una profonda ferita. Se poi, da adulta, viene a sapere che sua madre l’ha lasciata non perché s’era innamorata d’un uomo, ma per fare la carnefice in un campo di sterminio, la ferita è doppia. È un doppio dolore che non può guarire.
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