Mondo operaio a Torino tra la Singer e Simone Weil
 







Davide Turrini




Peccato che il premio Cipputi sia sepolto in qualche scantinato del Museo Nazionale del Cinema di Torino. Quest’anno due seri concorrenti alla vittoria li avrebbe avuti sicuro: Radio Singer di Pietro Balla e Je suis Simone di Fabrizio Ferraro. La sezione è Italiana.doc , il festival è quello di Torino edizione numero ventisette sotto l’egida dell’aulico direttore Gianni Amelio. Torino le sue ferite di guerra operaia le ha bene chiare in mente. E parlare di padroni e lotta di classe non fa venire l’orticaria a nessuno.
Pietro Balla, dopo il documentario ThyssenKrupp Blues presentato al festival di Venezia 2008, si interroga sull’orrore politico dell’oggi, quello che lui definisce «il silenzio degli innocenti». Radio Singer parte «dall’agosto di merda del 2009», sul caldo selciato di Piazza Vittorio, dove l’attrice Erika Di Crescenzo muove i primi passi per entrare dentro al primo ottobre 1977, giorno in cui la multinazionale Singer chiuse lafabbrica di Leinì, vicino Torino, lasciando per strada duemila operai. Nessuna retorica o reducismo, ma un lucido e spietato lavoro di rielaborazione di immagini d’epoca unite a un audio testimoniale di sole voci e nessun viso. A Leinì gli operai si organizzano e occupano la fabbrica. Contemporaneamente, Maddalena conduce l’ultima trasmissione di radio Singer, una delle prime radio libere, e un corteo di protesta si dispiega lungo le strade di Torino. La multinazionale impone il dogma: tagliare i rami secchi, destrutturare. Maddalena trasmette gli Area, Guccini, Bertoli e sembra scandire le pulsazioni di una comunità che si forma. Il collettivo della fabbrica, barlume di emancipazione culturale, senso dell’unione, forza di classe. Poi la manifestazione di Torino finisce male: l’intruso, l’innesto, la protesi sanguinaria, volontario pretesto per le reprimende reazionarie, si materializza nella molotov lanciata contro il locale "Angelo Azzurro" (Roberto Crescenzio che era dentro rimanegravemente ustionato e muore) e nel ferimento da parte delle brigate rosse del manager Singer, Enrico Boffa. Cala il sipario. Fine dell’emancipazione. L’operaio torna schiavo, impotente, invisibile, inudibile. Balla lega passato e presente perché le radici di questo orrore che viviamo oggi sono iniziate lì.
«Ricordo ancora l’aria e il colore del cielo di quel giorno, momento in cui si percepì che stava finendo tutto», racconta Balla, «anche oggi vedo tante storie individuali non diverse da quelle di allora. La differenza sta nel tarlo che ha invaso il cervello di ognuno di noi. Non sono soltanto Berlusconi e il consumismo, ma c’è qualcosa oggi che impedisce alle persone di pensare oltre e fuori da sé. Lo vedo nel mondo del lavoro, quello vero. Non so di preciso perchè tutto questo sia cominciato, ma credo che se le intelligenze straordinarie dell’epoca invece di dare la stura al potere individuale avessero ragionato in termini più utili al movimento, le cose sarebbero andatediversamente». Stesso lavoro formale lo compie Fabrizio Ferraro in Je suis Simone , mettendo in scena l’anno e mezzo passato volontariamente in fabbrica dalla filosofa francese Simone Weil. Fu alla Alsthom di Parigi, tra il ’34 e il ’35, che nacquero le pagine de La condizione operaia , disperato rendiconto del perpetuato abbrutimento e della quotidiana umiliazione subite dall’operaio. Weil, in mezzo alle presse, redige un diario, alla disperata ricerca del senso del lavoro che sta compiendo. Ma la voce fuori campo, il testo scritto allora, non può che elencare la condizione materiale di schiavismo suddivisa tra numeri sempre più alti di pezzi da produrre, dolore fisico, stanchezza mentale, ciocche di capelli strappate e mani tagliate da macchinari "mangler". «L’immagine non è un oggetto, ma un processo», afferma Ferraro. E Je suis Simone non fa altro che confermare l’assunto, elaborando un cinema evocativo, senza immagini d’epoca possibili, in cui la fisicità muta di alcuni attoricontemporanei riproduce la lacerazione carnale, viva, di chi si è cancellato come essere umano, per poter, paradossalmente, sopravvivere.









   
 



 
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