Se un migrante cantasse in arabo l’inno di Mameli...
Dov’è lo Stato-nazione?
 







Tonino Bucci




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Era ancora l’America di Bush. Nella primavera del 2006 scesero sulle strade di Los Angeles i migranti senza permesso di soggiorno. Erano perlopiù latinos , persone provenienti dal Messico (nonostante il muro di confine) o da altri paesi latinoamericani, ma residenti ormai di fatto negli Stati Uniti. Lo status dei latinos è labile, incerto. Sono una minoranza linguistica, parlano spagnolo e rappresentano un’enclave nella maggioranza di cittadini americani di lingua inglese. In molti casi non hanno cittadinanza americana essendo entrati nei confini per via "illegale", anche se a tutti gli effetti vivono e lavorano in territorio statunitense. Nelle manifestazioni per l’allargamento dei diritti i latinos misero in atto una protesta singolare. Si misero a cantare l’inno americano in spagnolo. Un modo per rivendicare la "pluralità" della nazione e per dare a intendere - dissero - che l’America era di tutti e che il farne parte non doveva essere unaquestione di nascita o di etnia. La protesta suscitò un dibattito, qualcuno ne rimase persino scandalizzato. L’effetto fu all’incirca lo stesso che sortisce un calciatore di origini straniere con la maglia della nazionale italiana, ripreso dalle telecamere mentre canta l’inno di Mameli. Per quel che riguarda gli Usa - che pure dovrebbero avere una secolare dimestichezza col melting pot - lo stesso presidente d’allora, George Bush, si spinse ad affermare lapidariamente che l’inno nazionale poteva essere cantato solo in inglese.
Sull’onda di quell’episodio due tra le intellettuali più di grido degli Usa, la filosofa californiana Judith Butler e Gayatri Chakravorty Spivak, esponente del pensiero postcoloniale e indiana di nascita, organizzarono un incontro pubblico. Di quel dibattito ne fecero un libro, pubblicato in inglese col titolo Who sings the Nation-State? (pressapoco "Chi canta lo Stato-Nazione?"), tradotto di recente in italiano ( Che fine ha fatto lo Stato-Nazione? , Meltemi,pp 96, euro 13). I due personaggi non hanno quasi bisogno di presentazioni. Judith Butler è tra le voci più influenti del femminismo americano. E’ conosciuta soprattutto per i suoi studi sul gender, fin dai tempi dell’uscita della sua opera principale, Gender Trouble . Da anni lavora all’idea che il genere e l’identità sessuale non siano affatto un’essenza naturale immutabile, ma una costruzione culturale e sociale. Il corollario del ragionamento è che non esiste un confine tra privato e pubblico. La vita degli individui è sempre dentro un campo di relazioni di potere. «La vita può mai essere considerata "nuda"? E la vita non è già entrata nel campo politico in modi che sono chiaramente irreversibili? La questione di quando e dove la vita inizi e finisca, dei mezzi e degli usi legittimi della tecnologia riproduttiva, le dispute per sapere se la vita debba essere concepita come cellula o come tessuto, tutte queste sono chiaramente questioni di vita e questioni di potere». Insomma, vitae politica non si possono separare. Anzi, chi volesse tracciare una "linea del Piave" tra pubblico e privato non farebbe che dare manforte alla «depoliticizzazione della vita». Si finirebbe per escludere dal campo della politica i problemi di genere e del cosiddetto lavoro di riproduzione e di cura.
Spivak, invece, bengalese di nascita, ha esordito nel collettivo dei Subaltern studies , una scuola di studi nata in India e poi allargatasi in tutto il sud-est asiatico, con una chiara e originale rilettura del pensiero di Gramsci. Nella categoria gramsciana di subalterni si rispecchiano i problemi delle società postcoloniali, uscite dal dominio delle potenze occidentali ma alle prese con una narrazione autonoma della propria storia tutta da costruire. Uno dei primi saggi di Spivak è Possono parlare i subalterni? del 1988 e metteva al centro la figura della vedova costretta nella società patriarcale a immolarsi sulla pira del marito defunto senza possibilità di parlare eraccontarsi.
Su per giù ricorda il caso dei latinos, cittadini spettrali senza riconoscimento, residenti americani di fatto ma non di diritto, che per parlare e dare un segno della loro appartenenza alla comunità nazionale devono tradurre l’inno americano in spagnolo. Subalterni sono i migranti, i profughi, i rifugiati. Spettri che non hanno consistenza, collocati dal potere in una zona incerta. Cos’è lo Stato-Nazione visto a bordo di un barcone di disperati in cerca di asilo e respinti in balia del mare? Quale significato ha la nazione americana in mente a un messicano che rischia la pelle per varcare il sorvegliatissimo muro al confine tra Texas e Messico? E che senso ha l’ american dream per uno costretto dalle leggi dello Stato a vivere da illegale? Soprattutto: i latinos che cantano l’inno americano in spagnolo si stanno inventando sul momento un modo alternativo di far parte di uno Stato oppure sono la prova vivente che il nazionalismo riesce, prima o poi, a integrare tuttisotto la propria bandiera?
Butler la prende alla radice. Il clandestino non è una condizione di natura. Se lo Stato è ciò che lega assieme una comunità di persone in un certo territorio, «è anche ciò che può di fatto slegare. E se lo stato lega in nome della nazione, evocando con la forza, se non con la potenza, una certa versione della nazione, poi anche slega, rilascia, espelle, bandisce». Quando lo Stato espelle esercita un potere che si serve di barriere e di prigioni. Per questo quando veniamo spossessati della nostra cittadinanza non siamo fuori dalla politica. «Questa non è la nuda vita - insiste Butler, entrando per inciso in polemica con Agamben - ma una particolare formazione di potere e di coercizione concepita per produrre e per mantenere la condizione, lo stato di spossessato». I detenuti di Guantanamo vivono in una prigione al di fuori di qualsiasi Stato (anche sotto il controllo spietato del potere militare degli Usa). La stessa cosa potrebbe dirsi di Gaza, vera epropria «prigione all’aperto» o per i prigionieri arrestati in Iraq e Afghanistan. Per tutti costoro non si tratta però di un ritorno alla «nuda vita», perché se così fosse, quale che fosse la brutalità della prigionia, ci sarebbe una condizione al riparo dal potere. C’è invece «un insieme di poteri che producono e mantengono questa situazione di destituzione, spossessamento e dislocazione, che generano proprio questa sensazione di non sapere dove si è e se ci sarà mai un altro posto in cui andare o essere». C’è la critica al nazionalismo di Hannah Arendt (che la portò a non condividere la nascita di Israele) a sostenere il dialogo tra Butler e Spivak. Quella Arendt che richiamò l’attenzione, per un verso, sulla figura dell’apolide - del clandestino diremmo oggi - e per un altro su quello Stato che per legittimarsi costruisce uno spazio nazionale omogeneo. Gli odierni respingimenti sono una pratica giuridica attraverso la quale i soggetti sono sia costituiti come "clandestini", siaperò preclusi nella possibilità di parlare - nella stessa condizione dei subalterni di Spivak. Arendt diceva che la libertà è un esercizio, un "performativo" che si realizza nel momento stesso in cui la si dichiara pubblicamente. I latinos, cantando l’inno in spagnolo, si sono inventati un modo diverso di appartenenza allo Stato-nazionale. Inclusivo, non esclusivo.

 









   
 



 
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