Viaggio nell’Italia che Garibaldi unì e Bossi divide
 







Davide Turrini




Nord e sud. Settentrione e meridione. Polentoni e terroni. L’Italia compie 150 anni e nessuno sembra avere più fiato per soffiare sulle candeline. Il cinquantaquattrenne lombardo Davide Ferrario, già regista di documentari come Lontano da Roma o La strada di Levi , inizia oggi le riprese di Piazza Garibaldi
Prodotto da RaiCinema e Rossofuoco, con l’apporto fondamentale in sede di scrittura di Marco Belpoliti, l’opera di Ferrario ripercorrerà l’impresa leggendaria dell’eroe dei due mondi datata maggio 1860. Bergamo come punto di partenza (la maggior parte dei mille era bergamasca), poi Pavia, Torino (che non offrì nemmeno un uomo all’impresa), Genova, Marsala, Palermo, Calabria, Basilicata e Campania. Otto settimane di viaggio con l’intento di verificare lo stato della nazione Italia, ponendosi domande, senza avere risposte precostituite. «Fino a trent’anni nessuno di quelli della mia generazione ha mai pensato che fossimo italiani: si guardavaall’America o al comunismo. Poi dopo i trent’anni scopri che sei sempre stato italiano senza rendertene conto», afferma Ferrario dalla sua Bergamo, «così la domanda da cui sono partito è stata: perché in quegli anni quando sentivo parlare di patria mi veniva da vomitare, mentre oggi a citarla non mi fa più schifo?».
Eppure nella storia degli stati europei siamo forse l’unico paese ad aver avuto un’impresa militare così simbolica come atto fondativo della nazione…
Siamo figli di alcune condizioni oggettive di unità nazionale, come di una iniziativa militare che ha forzato i tempi, compiendo qualcosa di apparentemente impossibile. Garibaldi mise tutti di fronte al dato di fatto della sua impresa, ma non fu lui a gestire l’unità. Furono i Savoia con un altro modello di nazione rispetto al repubblicanesimo di Garibaldi. L’unità è stata realizzata con imperfezioni e limiti che ci portiamo dietro da 150 anni. Tutto all’insegna di una grande utopia, come nelle grandi rivoluzioni dellastoria. Ma quando poi ci si è messi a costruire sono iniziate le magagne.
Un’identità localistica forte a Nord come a Sud: può essere questo un elemento che ha limitato la compiutezza dell’unità nazionale?
Noi italiani siamo diventati una nazione, ma non siamo mai diventati uno stato. Siamo gli unici europei che percepiscono lo stato come nemico, non come l’espressione di una comunità. Piuttosto che l’Italia, la nostra comunità di riferimento è molto più facilmente la famiglia e quelli intorno a noi. E’ un dato di fatto che ha reso l’Italia da un lato un luogo non omogeneo, affascinante per le sue diversità, dove ogni paese ha la sua storia, dove quelli di Bergamo come me "odiano" i bresciani che stanno a 30 chilometri; dall’altro è stato un disastro perché ha sempre impedito lo sviluppo di un sentimento di unità più solido e forte. I rapporti tra nord e sud sono sempre stati vissuti all’insegna o della retorica o della disillusione più cinica, mai qualcosa di mezzo. Ahimè, c’ètutto un viluppo di ragioni e di torti, di buone intenzioni che si trasformano in cattive, di cui è contrassegnata tutta la nostra storia nazionale. Nel 1860 si pensava di salvare i meridionali dai borboni, di costruire noi del nord che siamo bravi le fabbriche al Sud che non ci sono. Salvo poi scoprire, come c’è capitato a noi nella preparazione del documentario, che i borboni avevano l’industria metallurgica più fiorente d’Europa, poi smantellata dal regno d’Italia per impiantarci l’Ansaldo. Ci sono ancora rovine dell’epoca, che filmeremo.
Non abbiamo fatto in tempo a diventare italiani, che siamo diventati europei: un’accelerazione troppo tempestiva?
L’Italia è stato un paese positivo finché aveva frontiere davanti: lo sviluppo industriale del dopoguerra, la rivoluzione socio-culturale anni ’60-’70, poi l’idea d’Europa di cui siamo stati forti fautori. Dopo l’euro, però, è finito tutto nel "chissenefrega". Adesso, di fronte ad una globalizzazione che ci illude di avere vicinotutto ciò che è lontano, qual è la frontiera a cui l’italiano aspira? E’ quello dei movimenti difensivi come la Lega Nord che si richiudono su di sé. Se ci pensiamo, lo dico proprio da uomo di sinistra, vent’anni di chiacchiere leghiste, insopportabili parole bossiane piene di odio, in realtà non hanno prodotto fattivamente violenza: episodi dov’è stato versato del sangue non ce ne sono stati. A confronto di questo se pensiamo a tutto quello che i buoni ideali della sinistra hanno prodotto, c’è stato sangue versato e sangue fatto versare, che è terribile.
Dove vuoi arrivare?
A dire che un tempo c’era un’idea assertiva di qualcosa, volevi la rivoluzione, il cambiamento e per quello uno era disposto a farsi ammazzare e ad ammazzare. E questa roba qui ci sta, è così nella natura umana. Dall’altra parte, oggi la Lega chiede solamente quello che ha. Non propone ideali per cui combattere, per un mondo migliore. Semplicemente gli piace il mondo così com’è e lo difende restringendosempre più il cerchio attorno a sé, quello dalla comunità dove si abita. E’ chiaro che non produce violenza: non devi andare a conquistare cittadelle del nemico, ma erigere solo dei muri. Il limite storico della Lega non è tanto quello di essere razzista o privo di ideali, ma di proporre un mondo che non si muove più, mentalmente inchiodato.
La riflessione sull’identità locale forte, con la difesa del proprio suolo non ti sembra provenire dall’ideologia delle destre neonaziste?
Non ci sono più ideologie, però. Qual è l’ideale della lega? La Padania? Ma andiamo. Nessuno di questi qui ha idee per un futuro migliore che non siano quelle di difendere lo status quo. E’ la prima volta che si verifica nella storia d’Italia: un paese innamorato della condizione in cui sta e vuole difendere quello che ha conquistato, anche i privilegi, alla faccia di tutto il mondo che si muove intorno a lui.
Non esisteranno le ideologie, ma la logica del profitto, il lavoro a basso costo, ilcapitalismo che impone le sue regole e suoi tempi sono simili a trent’anni fa….
Leghisti e destra dicono che questo è il migliore dei mondi possibili, che questo capitalismo è il meglio che la storia potesse produrre. Ma non è vero nulla. Però c’è una evidente sconfitta storica, dall’89 in avanti, di un ideale contrapposto a quello che chiamiamo capitalismo. Da questa sconfitta la sinistra non è ancora uscita, continuando a giocare con la doppia verità di togliattiana memoria, anche questo un carattere molto italiano: dire una cosa e pensarne un’altra, cercare la democrazia ma pensare di fare la rivoluzione. Il mondo, purtroppo, ha preso un’altra direzione, va da quella parte e per me la cosa terribile è pensare che l’opposizione a questo mondo non avvenga in termini di un’ideologia affermativa e illuminista com’era il socialismo, ma avvenga su basi religiose: gli unici che fanno la guerra al capitalismo sembrano essere gli islamisti. Dal socialismo alla barbarie. Barbarie cheprende forme perverse proprio nell’aspetto ideologico, dove non capisci più niente di quello che viene detto. Molte cose che dovrebbero essere di sinistra, vengono prese in mano dalla destra, e viceversa. Appunto perché, ahinoi, non ci sono più destra e sinistra, ma un unico sistema condiviso da tutti entro il quale stiamo. Dovremmo ripartire dall’analisi di questa situazione, senza baloccarci su storie del secolo scorso, dando nuovi nomi a quello che pensiamo. Se usiamo quelli vecchi, finiamo per fare lo stesso gioco della Lega.









   
 



 
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