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Di musica al sessantatreesimo Festival di Locarno ce n’è tanta. L’hip-hop della Settimana della Critica, che in The furious force of Rhymes di Joshua Atesh Litle ci accompagna in un giro del mondo nei ghetti del rap, in rabbie compresse in rime selvaggie, dall’America alla Palestina. Il jazz chess di Chilly Gonzales in Ivory Tower nella sezione dei Cineasti del presente. In Cyrus, film della Piazza Grande, Jonah Hill si muove con talento tra suoni campionati, sintetizzatori e tastiere e in Rubber, stessa sezione, il regista è quel folle dj noto anche come Mr. Oizo e che risponde (quasi sempre male) al nome di Quentin Dupieux, E Beli beli svet, in concorso, è un musical particolarissimo sulla crisi, il cui epicentro è una città industriale fantasma serba. Fuori competizione Get out of the car, di Thom Andersen, che per 34 minuti si scatena tra rhytm’n’blues e jazz. E da quest’ultimo partiamo per raccontare un documentario italiano che haentusiasmato, sempre fuori concorso, il Palavideo. Assente il regista Franco Maresco (in buona compagnia: hanno marcato visita anche Godard e Straub), che comunque ha lasciato due ore di "musicinema" di altissimo livello. Parliamo del film Io sono Tony Scott. La storia del più grande clarinettista del mondo. Maresco è un cinico romantico, lo sappiamo da sempre e con lui il talentuosissimo jazzista diventa la pietra angolare di una visione melodica e impietosa di un mondo sbagliato. Il barbuto Tony Scott, morto nel 2007, con le sue parole e soprattutto con le sue note inarrivabili, è anche la cartina di tornasole di un’Italietta meschina e di un’America razzista, di affinità elettive insospettabili e aneddoti impagabili. Un documentario che guardi e senti con avida curiosità. Tony è un emigrante di ritorno, i suoi genitori partirono da Salemi per il New Jersey, lui all’apice del successo tornò in Italia, una delle sue tante decisioni autolesioniste. Per mostrarci spietatamente qualeerrore avesse commesso, Maresco ci sbatte in faccia una tristissima intervista con Paolo Bonolis, in cui il conduttore lo tratta con irrispettosa e arrogante superficialità. E gli occhi di Tony, esempio di dignità, si riempiono di frustrazione e malinconia, che si ripercuotono persino sulla sua performance. Far fatica a seguire un’orchestrina televisiva per il miglior clarinettista del mondo - titolo che DownBeat gli assegnò per vari anni consecutivi grazie a referendum plebiscitari tra i suoi lettori - fu un’umiliazione che solo la mediocre Italia poteva dargli. Tony, genio incompreso, amico fraterno di Ella Fitzgerald e Harry Belafonte (del cui successo, forse, fu l’artefice), adepto di Charlie Parker- «per me è un profeta - dice nel documentario - altro che Gesú, Maometto o Einstein» - trovò da noi solo rifiuti e indifferenza. Anche decenni fa eravamo quel paese disastrato e disastroso che premia i peggiori e uccide i migliori. Ma Scott è anche il pretesto per riscrivere la storiadel jazz, per riempire l’album di nomi poco conosciuti, di notare come in alcuni ghetti l’alleanza affettiva e musicale tra siciliani e neri nascesse dal razzismo Wasp e da un senso musicale per la vita, pieno di "vibrato", molto simile. Buddy De Franco in testa, son tanti i siculo-americani nel jazz e Maresco, palermitano, non si tira indietro nel raccontarli, guardando anche i lati oscuri: i jazzisti suonavano spesso al Copacabana e al Cotton Club anche grazie a una contaminazione con Cosa Nostra. Materiale di repertorio, interviste, una voce fuori campo che vive il racconto con ironica partecipazione, Io sono Tony Scott è un viaggio in una cultura unica, in un’arte che ha in sé vita e morte che ballano una musica piena di energia, invenzione e dolore. E in qualche modo, incredibile a dirsi, si sentono sensazioni simili anche per il film passato ieri in Piazza Grande, Gadkii Utenok- The Ugly Duckling. Garri Bardin, cineasta russo, ha stupito tutti con il film forse più faticoso dellasua pur lunga carriera. Un musical d’animazione in stop motion che gioca tra due grandi maestri: le musiche, infatti, sono di Tchaikovsky, e la trama è presa di peso dal "Brutto anatroccolo" di H.C. Andersen, con spunti visivi e di riflessione da La fattoria degli animali di George Orwell. «E infatti - dice il cineasta - ancora mi tremano le gambe. Dovevo essere alla loro altezza, ma ormai sono abituato alla mia tendenza a darmi ostacoli difficili da superare». Grande poesia, un sottotesto politico pieno di sarcasmo e acume, i testi strazianti, sul tema principale del Lago dei cigni, affidati a Yuly Kim, incorniciano un gioiello che viene dal freddo ma che scalda il cuore. Quella fattoria autogestita da animali arroganti e razzisti verso l’anatroccolo nero e sfigato, le parate danzanti e grottesche degli stessi, sembrano ridisegnare con disincanto la storia dell’Unione Sovietica, le modalità della lotta contro il diverso in nome di un conformismo burocratico e miope. Tanto che a volteinvece di Tchaikovsky sembra di sentir l’Internazionale. «Certo che c’è la mia Russia qui: giro ció che so, che amo e che odio. E il mio paese è tutto questo. C’è Ivan il Terribile, Pietro il Grande, Stalin e forse pure Gorbaciov. Ma c’è anche un bambino che non viene accettato, il trauma infantile che tutti abbiamo vissuto». Un piccolo capolavoro: dopo 6 anni di lavoro, sei sacchi di piume per i volatili della fattoria e una dozzina di chili di plastilina. Ne è valsa la pena.
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