R.REDFORD: GOOD-BYE, HOLLYWOOD!
 







Di Antonio NAPOLITANO




Robert Redford

Hollywood è stata, da sempre, il simbolo della duplice natura del cinema: creatività artistica ma anche attività industriale mirata al "business as usual".
Vi hanno lavorato registi del calibro di un Griffith, di un Lang e di un Ophuls e, negli stessi anni mestieranti di mediocre e basso livello.
Non sono mancate, però, versatili personalità capaci di destreggiarsi tra le due opzioni, alternando momenti di notevole talento a periodi di stretto conformismo. Basterebbe citare i nomi di un Cukor e di un Ford, o di un Huston, e di un Edwards e di un Losey.
Tra quelli ancora sulla breccia converrà ricordare Robert Redford, il noto attore e regista che ha dimostrato, a più riprese, di saper sottrarsi ai diktat dei "Big Studios" e ai i loro "iron scenarios".
A questo scopo, nel 1991, egli ha fondato il "Sundance Institute" a Park City (Utah)(con annesso "TV Channel") per offrire più ampie prospettive al cinema non-commerciale.
E premi esegnalazioni hanno funzionato da sostegno e da incoraggiamento per autori indipendenti, particolarmente meritevoli.
In questo modo non pochi di loro sono riusciti ad abbandonare la catena di montaggio hollywoodiana messa in moto nella maggior parte dei casi a scopo di profitto ("box-office").
Ciò che ha fatto della "fabbrica dei sogni" un’enorme incubatrice di fantasticherie e mostruosità ad uso della più immatura audience.
A Redford una iniziale spinta è venuta probabilmente dalla amicizia (e collaborazione) con outsiders quali Pollack e Lumet, già per conto proprio estranei ai compromessi più onerosi dal punto di vista estetico.
Col tempo, in Redford è poi cresciuto la consapevolezza di poter agire da cineasta di più severo impegno.
Come attore, del resto, egli aveva mostrato doti non comuni.
Lodevoli prestazioni aveva fornito in pellicole quali "La caccia" o "Come eravamo" o nella brillante "Stangata" e in qualche western nient’affatto stereotipato ("Corvorosso non avrai il mio scalpo") nonché in pellicole di stampo progressista quali "Tutti gli uomini del Presidente" o "La mia Africa" e "I tre giorni del condor".
A 43 anni, nel 1980 si sarebbe deciso al gran passo verso la regia con "Gente comune", storia della famiglia Jarrett colpita dalla morte di un figlio e dal successivo suicidio della sua fidanzatina. Nella vicenda la nota di fondo è il fibrillarsi dell’ottimismo natalizio, che ha edulcorato tante pellicole made in USA.
E solo in filigrana si legge qualcosa di quel freudismo che ha timbrato a secco la drammaturgia in voga tra Florida e California.
Il regista, inoltre, dà ottima prova nell’orchestrare la recitazione di attori tra loro poco omogenei (D.Sutherland e Mary Moore, Judd Hirsch e D.Manoff).
Nelle 1988, con "Milagro" Redford si volge ad ampliare lo sguardo su differenti aspetti dell’America (di cui New York e Los Angeles sono una limitata parte della geografia antropica).
Il film, infatti, focalizzail problema della speculazione edilizia ai danni dei poveri chicanos del Nuovo Messico.
È ritratto con indubbia simpatia il personaggio del contadino che non vuole rinunciare a coltivare in pace il suo campicello di fagioli.
Ottimamente diretto è lo sconosciuto (attore) messicano e altrettanto riuscita è la figura della garagista (una Sonia Braga svincolata dei suoi tic di vamp proletaria).
La stessa sceneggiatura presenta i toni convincenti di uno Steinbeck d’annata.
Nel 1992, Redford realizzerà "In mezzo scorre il fiume" la storia di due fratelli che il padre, pastore presbiteriano, vorrebbe far crescere nel culto delle più rigorose virtù cristiane e, parallelamente, farne due abilissimi pescatori di trote (attività vista come emblema della armonia fisica e del più genuino contatto con la Natura).
Ma i due ragazzi riveleranno caratteri assai diversi: l’uno, tutto preso dal senso del dovere e dell’obbedienza al genitore, mentre l’altro, incline al bere e sempre piùcolluso con pessimi compagni, destinato, perciò, ad una tragica fine.
In fascinoso contrasto con le amare vicende si ergono i tranquilli panorami del Montana ripresi con eccellente gusto cromatico dall’operatore di scuola francese.
Il 1994 è l’anno di "Quiz show" (int: J.Turturro, Mira Sorvino e M.Scorsese). Redford opera qui un intelligente scavo nel fenomeno dei giochi a premio truccati. Viene fuori così una società tarata dall’ingordigia del denaro, e un degrado morale che assume tratti allarmanti per il futuro.
Qualche anno dopo, "L’uomo che sussurrava ai cavalli" è un giusto omaggio ai nobili quadrupedi dei quali già R.Flaherty diceva: "non ci stanca mai di vederli al trotto o al galoppo".
In questo caso, essi aiuteranno la ragazza vittima a risanarsi dal grave incidente capitatole. E il regista sarà presente nelle vesti di Tom Booker, il saggio istruttore degli equini, capace -in più-, di scansare i grossi scompigli di una famiglia non sua.
Un peculiare"biopic" è "La leggenda di Bagger Vance" (2000) che tratta di un campione di golf ritornato malconcio dalla prima guerra mondiale. Solo riprendendo lo sport egli riuscirà a recuperare una parte della sicurezza perduta.
Nonostante qualche lentezza e qualche ripetitività, si può sottoscrivere il giudizio dello storico L.Maltin per il quale "il film è un’opera sintomatica che si mantiene aderente all’universo fiero e dolente di Redford .
Ci sarà poi una breve ripresa dell’attività attoriale ("cherchez l’argent"!) con "Il cartello", "Spy game" e "Il vento del perdono" (2005).
Nel 2008 di nuovo da regista,  Redford girerà "The Conspirator": descrivendo in esso le circostanze in cui si prepara l’assassinio di Abramo Lincoln.
E punta su quanto di simile si è verificato un secolo dopo con J.F.Kennedy. Sotto traccia si legge lo sdegno per la faziosità politica, groviglio di odi e pregiudizi che ha intossicato la democrazia americana fin dagli inizi.
Ancora una volta,però, risalta l’equilibrio emozionale di Redford nella dosatura degli elementi drammatici; mai egli fa volteggiare il racconto su baratri o assurde voragini per impressionare lo spettatore in cerca di brividi.
In ciò, resta saldamente fermo sul versante del più verosimile realismo. Né forza le sue intenzioni né scardina gli assi portanti della tradizione e dell’onestà intellettuale.
E nulla aggiunge di vistoso o di sorprendente per non tradire la volontà di esporre con passione (e misura) la condizione umana di tanti suoi concittadini presenti ed attivi anche in luoghi non celebri della Confederazione.









   
 



 
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