La via dell’austerità
 











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Se un ministro - non uno qualsiasi ma lui, il superministro all’economia - dedica due ore a parlare di Enrico Berlinguer, c’è di che riflettere. Il governo Berlusconi è lì lì per cadere ma Giulio Tremonti - il più teorico dei governanti della destra - trova il tempo di fare la sua apparizione, puntualissimo, a un dibattito sull’austerità berlingueriana. Apparizione per nulla rituale, niente affatto scontata. Non banale sarà anche la sua lettura di Berlinguer.
Ma cominciamo dall’inizio. Una piccola casa editrice, Gli asini, coordinata da Goffredo Fofi e Giulio Marcon, decidere di ristampare due discorsi di Enrico Berlinguer, quelli sull’austerità, il primo pronunciato a metà gennaio del 1977 al famoso convegno del Pci con gli intellettuali al teatro Eliseo di Roma, il secondo in conclusione dell’assemblea degli operai comunisti che si tenne pochi giorni dopo, il 30 gennaio, al teatro Lirico di Milano. Il volumetto, poco più di settanta pagine,pubblicato con il titolo La via dell’austerità. Per un nuovo modello di sviluppo (Edizioni dell’asino, euro 10) è stato presentato l’altro ieri a Roma da Luigi Manconi, da Emanuele Macaluso e da un ospite d’eccezione, Giulio Tremonti. Chi ascolta in sala l’intervento del ministro capisce subito che non è un discorso scontato. Non perché traspaia dalle parole di Tremonti un elogio alla figura di Berlinguer. C’è senza dubbio il riconoscimento a uno degli ultimi esponenti di una razza di politici come non se ne vedono da tempo, di quelli capaci di guardare al futuro e disegnare architetture globali di società, ma di fondo il tema del dibattito è un’occasione per andare oltre i tributi formali. Non è semplice decodificare la lettura tremontiana del testo di Berlinguer. Intanto, perché è la visione di un avversario politico "dichiarato" che fa un’incursione da un campo completamente estraneo in quello che poteva essere l’orizzonte culturale e politico del segretario del Pci nel 1977. «Noncondivido i presupposti e le analisi di Berlinguer, ma questo è fin troppo facile dirlo». Ma, si sa, le analisi diventano rischiose quando cresce la prossimità con l’avversario politico. Secondo, Tremonti ha scelto l’interpretazione meno scontata. Per intenderci, il ministro dell’economia non ha forzato il termine austerità nel significato di politica dei sacrifici, dei tagli e della moderazione salariale, come ci si sarebbe aspettato. E, del resto, Tremonti non ha bisogno di Berlinguer - sia pure di un Berlinguer rivisto e reinterpretato - giustificare teoricamente i tagli che da ministro ha ampiamente praticato. Semmai, Tremonti ha bisogno delle suggestioni berlingueriane per coprirsi su un altro fronte, per accreditarsi come esponente di una destra non più iperliberista e alla ricerca di una nuova visione strategica della società dopo la crisi della globalizzazione e del neoliberismo. Chi legge Berlinguer non è il Tremonti operativo in veste di ministro del governo (ancora) incarica, ma il Tremonti teorico, autore di una lettura (tutto sommato) onesta del testo berlingueriano,con la mente - chissà - già rivolta a uno scenario postberlusconiano (governissimo?) e a una destra antiglobalizzazione che deve ridisegnare il suo assetto in assenza di Berlusconi.
Ma cosa c’entra l’austerità con la destra immaginata da Tremonti? C’entra, e non poco. Quando Berlinguer pronuncia il famoso discorso in Italia e nell’occidente capitalistico c’è una crisi economica, «forse meno drammatica di quella attuale sul piano economico - dice Tremonti - ma certamente rilevante sul piano politico». L’analogia col presente si fa sentire. Berlinguer comprende che quella non è una banale crisi economica, ciclica, bensì «un cambiamento della storia» e soprattutto che - parole sempre di Tremonti - sulla base di quella crisi «si può costruire una società diversa». Non finisce qui. Tremonti sorprende e scavalca a sinistra persino Emanuele Macaluso. «Non condivido le letture minimaliste -prosegue il ministro - questo non è un libro, come si è detto, pauperista. Io credo che Berlinguer pensasse a un diverso progetto sociale, non socialdemocratico, non capitalistico, a un cambiamento strutturale del mondo, non solo nel dominio domestico dell’Italia ma in una più alta prospettiva internazionalista e geopolitica. E’ il disegno di una società che potrebbe venire fuori dalla crisi. Non è una ricetta economica, ma un’architettura di grande ambizione».
Ma forse, giunti questo punto, sono le parole di Berlinguer che vanno ascoltate. «Per noi l’austerità è il mezzo per contrastare alle radici e porre le basi del superamento di un sistema che è entrato in una crisi strutturale e di fondo, non congiunturale, di quel sistema i cui caratteri distintivi sono lo spreco e lo sperpero, l’esaltazione di particolarismi e dell’individualismo più sfrenati, del consumismo più dissennato. L’austerità significa rigore, efficienza, serietà, e significa giustizia». «Il movimento operaio sifa portatore di un modo diverso del vivere sociale». Bisogna «abbandonare l’illusione che sia possibile perpetuare un tipo di sviluppo fondato su quella artificiosa espansione dei consumi individuali che è fonte di sprechi, di parassitismi, di privilegi, di dissipazione delle risorse, di dissesto finanziario». Ma l’austerità non è solo un progetto su misura per la società italiana. Berlinguer guarda anche a una "meccanica internazionalistica", all’eurocomunismo e, più in generale, a un sistema di rapporti più equi, giusti e solidali tra il nord del mondo e i paesi del terzo mondo usciti dal dominio coloniale.
La categoria di «austerità» è stata fraintesa, equivocata, distorta e, in qualche misura, lo stesso Berlinguer era consapevole del rischio. A più riprese nei due discorsi sottolinea la possibilità di due interpretazioni, l’una di "destra", a vantaggio degli interessi delle classi dominanti, l’altra di "sinistra". Quando proponiamo la «programmazione dello sviluppo», una societàin cui l’uomo non sia «un mero individuo contrapposto ai suoi simili», il superamento del consumismo, l’«andare oltre l’appagamento di esigenze materiali artificiosamente indotte», «l’obiettivo di una partecipazione dei lavoratori e dei cittadini al controllo delle aziende, dell’economia, dello Stato», «che cos’altro facciamo - diceva Berlinguer - se non proporre forme di vita e rapporti fra gli uomini e fra gli Stati più solidali, più sociali, più umani, e dunque tali che escono dal quadro e dalla logica del capitalismo?».
A maggior ragione torna la domanda: cosa c’entra Tremonti con le tesi berlingueriane? E’ il ministro stesso a spiegarlo quando invoca una destra in cerca di modelli da contrapporre alla globalizzazione liberista. Se i valori della rivoluzione francese erano liberté egalité fraternité, «sul frontone del tempio della nostra epoca sta scritto: globalité, monnaye, marché». Tramontata l’era del culto del dio mercato la destra stile Tremonti ridisegna i rapporti traStato e società: «non credo che l’economia possa essere sostenuta solo con la domanda privata, occorre anche la domanda pubblica». E’ solo una suggestione, ma l’immagine di Enrico Berlinguer di una società postconsumistica, incentrata più sul consumo di beni pubblici che sull’individualismo sfrenato, può attrarre anche un politico come Tremonti, non tanto nella sua veste operativa di ministro, ma in quella di probabile futuro leader della destra postberlusconiana. Le categorie di Berlinguer vengono prese e calate in un altro orizzonte politico. La riforma morale della vita pubblica di Berlinguer, per esempio, diventa assimilabile - nella traduzione che ne fa Tremonti - al federalismo fiscale. «La scelta politica di portare tutto il potere fiscale al centro, avviata negli anni 70 - dice Tremonti - ha comportato che il centro cominciasse a fabbricare debito pubblico. Al principio la scelta di fare spesa in deficit era una scelta per fronteggiare grandi emergenze sociali e nazionali. Mapoi il meccanismo si è avvitato su se stesso, la curva del debito si è sviluppato in maniera progressiva». Ed è ancora il Berlinguer che teorizza la «programmazione» per uscire dalla crisi, che può interessare a una destra tremontiana che guarda a un diverso rapporto tra Stato e mercato. «Chi l’ha detto che questo governo non ha fatto spesa pubblica?». Questo non è vero, però Tremonti lo dice. Ed è il segno che qualcosa nell’ideologia della destra sta cambiando. Tonino Bucci









   
 



 
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