MEL BROOKS E L’ARTE DELLA PARODIA
 







di Antonio NAPOLITANO




La parodia come genere a sé stante risale a tempi lontani ed è, consistita, quasi sempre, nella riproduzione in forma burlesca di opere altrui o, come ha notato Bachtin, nel rovesciamento critico di alcune strutture narrative tradizionali.
Un’arte non facile  dato il rischio ch’essa comporta di esagerare al punto di perdere ogni credibilità e significato.
Nel campo della letteratura restano famosi i lavori del Berni e del Folengo nonchè quelli di un Rabelais o di un Fielding.
Nè mancano parodie nell’arte figurativa, dal Pisanello e dal Bosch fine al Duchamp degli "oggetti beffardi" .
Anche nel cinema non sono rari gli esempi di parodia a partire da Meliès fino a Chaplin e a Hal Roach, e dai fratelli Marx fino a Danny Kaye.
Last but not least è da considerarsi Mel Brooks, attore e regista di talento che ha al suo attivo vari film da non mandare in soffitta.
Melvin Kaminsky (è il suo nome all’anagrafe) nasce nel 1926 a NewYork nel quartiere ebraico di Williamsburg. A 16 anni già si esibisce come "tummler" (il clown delle smorfie) in certi recital che alcuni alberghi offrono ai clienti per qualche ora di intrattenimento.
Fa poi varie esperienze di sceneggiatore, scrivendo sia per il teatro che per il cinema insieme con gli espertissimi Neil Simon e Carl Reiner.
Il primo film da lui diretto è "Per favore non toccate le vecchiette" (1968) interpretato da Zero Mostel (brillante attore ingiustamente dimenticato) e dall’allora esordiente Gene Wilder.
La vicenda è quella di un impresario pasticcione che si fa finanziare uno show da alcuni anziane amiche, al fine di eludere le tasse e in previsione di un clamoroso fiasco (che non verrà).
Nel film Brooks riesce ad assemblare tante piccole assurdità (un "song" sulla vita di Hitler) e i numerosi incidenti che si susseguono tra le quinte del palcoscenico.
Nel suo recente "Dictionnaire des films", J.C.Lamy lo definisce "un véritable chefd’oeuvre".
Nel 1970, è la volta de "Il mistero delle 12 sedie", dal racconto di Ilf e Petrov. È la storia di un nobile russo, ridotto in miseria dopo la rivoluzione, che va alla disperata ricerca dei preziosi gioielli che sarebbero stati nascosti dell’imbottitura di una delle 12 poltrone. Non li troverà, perché fortunatamente sono stati presi e utilizzati a fini di utilità sociale.
Il paesaggio ha parecchio di autentico dato che Brooks-Kaminsky ha voluto trasferire la troupe in Jugoslavia per realizzare il film in un ambiente verosimile.
Il 1974 è l’anno di "Frankenstein Junior" con Gene Wilder e l’impagabile maschera di Marty Feldman.
E’ una scintillante "rivisitazione" della "gothic novel"di Mary Shelley, in cui un pronipote del famigerato barone rinnova il terribile esperimento.
Finisce, però, col creare un bizzarro mostro che si lascia ammansire dal suono del violino e che ama ballare il tip-tap.
La commedia mostra un magico equilibrio tra parodia e satiraed è quanto mai lontana dal "gioco goliardico e volgare" che un critico ha voluto ravvisarvi.
Altro gustoso rifacimento cosparso di sale attico ma senza deformazioni maligne è "Mezzogiorno e mezzo di fuoco". In giusta misura sono messi alla berlina vari stereotipi del genere western, tra vivaci zampilli di gag e godibili battute.
Nel 1976, "Silent movie" ("L’ultima follia" di Mel Brooks) vede raggruppati gli attori amati dal regista, da Feldman a De  Luise, da Sid Caesar ad Anne Bancroft.
Si tratta della storia di un cineasta che vuol girare una pellicola muta per contrastare le voci che lo danno come distrutto dall’alcol.
Invano un rivale si affanna a contrastare la sua lucida creatività, e invano fa assumere nel cast un’amica ballerina per sabotare l’impresa. Anzi, la ragazza si innamora di Mel che riesce così a portare a buon fine il suo peculiare progetto.
Brooks ricostruisce in molte sequenze il ritmo automatico delle two-reels per muovere i personaggi conscatti improvvisi e capricciosi di buon effetto comico.
Nel 1977, "Alta tensione" si presenta dichiaratamente come una parodia della maniera hitchcockiana. Nel film, Brooks stesso è lo psichiatra alle prese con una clinica che è una vera gabbia di matti. Ma anche il terapeuta è afflitto da fobie che lo portano in conflitto con gli assistenti e con lo stesso custode notturno dell’istituto.
È iniettato nella storia tutto il possibile "mauvais esprit" intriso di beffarda intelligenza e temperato sarcasmo.
Nel 1981, "La pazza storia del mondo" è il tentativo, solo in parte riuscito, di dare una panoramica della presunta evoluzione umana attraverso i secoli, a partire dalla preistoria.
Si salvano sicuramente le scene dell’Inquisizione rappresentata a mo’ di musical e, prima ancora, quella di Mosè che, scendendo dal Sinai, con tre (3) tavole da cinque comandamenti ciascuna, ne lascia cadere in pezzi una. E si avrà così un "semplice" Decalogo.
Da ricordare Sid Caesar chefa un cavernicolo dall’impatto irresistibile.
L’anno seguente, Mel collabora come attore e o regista ad "Essere o non essere", abile rimake a cura di A.Johnson. E’ un vaudeville di struttura grottesca accettabile certamente ma privo del "tocco" del celebre Ernst.
In "Balle spaziali" (1987) Brooks si diverte a fare il verso a "Starwars" con battute e gags che punteggiano eventi che di per sé già hanno dello strabiliante.
Come attore, egli si impegna in due ruoli diversi, quello dell’alieno aggressivo e quello del piccolo ma furbo Yogurt, e sono ambedue dei "pinces sans rire".
Con "Che vita da cani" (1991) il regista ritornerà con i piedi sulla terra, in quel di Los Angeles, metropoli piatta e agorafobica.
La vicenda è centrata sulla scommessa di un miliardario del luogo che s’impegna a sopravvivere per qualche tempo pur senza un solo cent nella tasca.
Stavolta gli effetti comici risultano assai blandi e il linguaggio demagogico è fuori sesto nell’ambientedescritto con scarsa cognizione della sua effettiva realtà.
Qualche fragilità presenta anche "Robin Hood-un uomo in calzamaglia" del 1994, infarcito di eccessivi anacronismi (Robin Hood che evade da una prigione islamica). Certi attori tendono a ridersi addosso (stigma di bruta amatorialità) e poco verosimile appare il rabbino Tuchman, variante anomala del famoso frate manesco di Sherwood.
Una decisa ripresa sul piano della qualità risulterà invece l’euforizzante "Dracula morto e contento (1995) interpretato da Leslie Nielsen. Qui Brooks veste i panni di un esorcista poco smaliziato e Anna Bancroft incide un delizioso cammeo nella parte della nobile madama Ouspenskaja.
Tra le sequenze spicca quella del ballo nel salone degli specchi, che non riflettono l’immagine del conto succhiasangue.
Ciò che di macabro potrebbe risultare è rovesciato in cifre satiriche di buon livello.
E il "fascino sparviero" del nobile vampiro si  raggrinza in una maschera grottesca chenon riesce a spaventare nemmeno un bambino.
Nel prosieguo del tempo Brooks ha continuato la sua attività di produttore e di attore di cinema, teatro e TV ("The adventures of Jimmy Neutron").
Per queste poliedrico lavoro nei vari settori dello spettacolo ha ricevuto il prestigioso "Tony Award" con motivazioni entusiaste.
Soprattutto, a guardar bene quanto ha fatto per il grande schermo, occorre ammettere che ha saputo ritagliarsi uno spazio di un certo rilievo, gestendo, con indubbio talento la sua inclinazione al burlesco, senza alcun abuso di volgarità, doppisensi o deformazioni maligne.
Arrivando, così, con le parodie più centrate a suscitare qualche malizioso interrogativo sull’ "American way of filming".
E firmando, in tal modo, uno stuzzicante invito a star svegli di mente e a non arrendersi alla persuasione occulta (e sfacciata) dei cinici Tycoons dell’industria subculturale, troppo spesso promotori di falsi miti e puerili leggende.









   
 



 
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