VISIONI -IMPURE- DEL CONTEMPORANEO
 







di Cristina Piccino




Jan Cvitkovic è un nome in qualche modo familiare per il Torino film festival, è stato infatti proprio Roberto Turigliatto che insieme a Giulia D'Agnolo Vallan lo dirige, a scoprire il regista sloveno selezionandolo per i Nuovi territori veneziani di cui si occupava. Il film era Pane e latte (2001), un esordio folgorante che vinse il premio per il miglior primo film imponendo il suo regista come talento da tenere «sotto controllo». Ecco che ora il quasi quarantenne Cvitkovic (è nato nel 1966), archeologo che ha scelto la macchina da presa, torna alla regia con Gravehopping (Da una tomba all'altra) che ha conquistato la gara del Torino film festival 2005 (in giuria Nacer Khemir, Amir Naderi, Cédric Kahn, Giuseppe Gaudino, Rita Azevedo Gomes). La storia come leggiamo nelle note dello stesso Cvitkovic racconta un'intimità comune: «vorrei che guardandolo qualcuno si riconosca in questa intimità e la viva come la propria». Dunque eccoci nella casa diPero (Gregor Bakovic), il protagonista, villetta bifamiliare con giardino nella nuova Slovenia nata negli anni Novanta, col prezzo altissimo di massacri a cadaveri pagato da tutta la ex-Jugoslavia nella guerra civile iniziata proprio con le rivendicazioni di indipendenza in stile leghista della regione troppo avanzata (economicamente) e avida di beni che si staccò supportata dalla Germania. Un pretesto, e un meccanismo ben innestato per polverizzare l'intero paese, le sue energie avanzate e quella sperimentazione di melting pot prototipo possibile per l'Europa a venire - lo stesso accadde nel Libano troppo moderno per collimare con la rappresentazione del «mondo arabo». Pero al villaggio è famoso per i suoi discorsi. Un po' è l'occasione, i funerali, un po' che è in quei discorsi Pero ci mette le sue esperienze e una sua visione ipercritica del mondo. Insieme a lui vivono la sorella sposata col «classico» tizio sbagliato, che la picchia, la tradisce, e il sesso sono scopate in cucinamentre lei affetta il pane... Il nipotino figlio dei due quindi armato di saggio distacco, l'altra sorella muta e sognatrice, il padre che tenta continuamente il suicidio stufo di vivere da quando la moglie è morta... Poi c'è Renata, il grande amore di Pero, che però non riesce a uscire dai legami incestuosi (e sadomaso) col proprio padre. Anche in Pane e latte il cuore era una famiglia «disfunzionale» come il paese nel quale cercava di sopravvivere. Non che stavolta vada meglio, cambia un poco il tono, con attrazione verso la commedia (nera) e la voglia (o necessità) di toccare luoghi anche rischiosi delle immagini. Musica, danze, luci colorate, qualche archetipo dell'humor slavo, a cominciare da quel confine sottile e spesso ambiguamente confuso tra vivi e morti, il cimitero «palcoscenico» per le arringhe di Pero, il nonno suicida a oltranza ma che non muore mai, e poi il fantastico, altro confine, come l'amore così viscerale da sfiorare talvolta anch'esso la morte. Kusturica è ilprimo riferimento - decor, una confusione di tempi, vecchie auto italiane, canzonette - e anche il rischio più alto, ma Cvitkovic pure sceneggiatore e produttore con puntiglio da archeologo del cinema sembra cercare la tensione di tutte le varie esperienze e memorie di immaginari per plasmarle su un senso attuale, oltre la Slovenia da celebrazioni e cartolina. Pero mentre spiega al bimbetto la grande vittoria nazionale sull'esercito jugoslavo il giorno dell'indipendenza, precipita dalla finestra con tutta la bandiera. Mentre la povera ragazza muta verrà stuprata e poi crocifissa da tre tizi senza ragione apparente, che a loro volta saranno ammazzati a colpi di spranga dal fidanzato di lei, il meccanico del villaggio, a cui Pero mentre lo seppelliscono dentro all'adorata seicento non riuscirà a dedicare neppure una parola... E non ci sono parole né spiegazioni apparenti come era difficile trovarne alla nevrosi meccanica di una guerra su cui mai c'è stata chiarezza o discussione dentro efuori davvero, che continua a svelare eccidi di un paese scomparso dalla mediatizzazione.
Da una tomba all'altra in questo senso era il film che meglio di altri esprimeva in forma «piana» ciò che sembrava la scommessa del festival, una ricerca cioè di possibili immaginari obliqui in sintonia e insieme in scarto con l'intero «impianto» teorico e di immaginari delle retrospettive (Brocka, Hill, Chabrol, Sganzerla) e di un fuori concorso di opere mature (Naderi, De Bernardi, Wakamatsu, Khemir...) in debutti o secondi e massimo terzi film. Sfida non facile anche per la vicinanza di festival «maggiori» tipo Venezia e tra qualche mese Berlino, prediletti per statuto da produttori e distributori rispetto ai quali rovesciando le proprie regole Torino potrebbe essere pericoloso avversario. Perché non fare un concorso col «fuori» (o i Detours) lasciando intuizioni e germi di un cinema a venire nelle geografie parallele, laddove imperfezioni e debolezze comunque di potenzialità sono piùprotette e meno esposte? Inoltre la geografia emozionale disegnata dai titoli non in competizione è «invisibile» nelle macchine di festival obbligati al compromesso del nome spendibile (vedi a Venezia l'assenza clamorosa di Wakamatsu) rispetto ai quali Torino ha anche prestigio e fiducia di un lavoro in profondità del tutto inconsueto. Miglior regia a Be with me di Eric Khoo, nella selezione forse in sintonia con le esplorazioni di un cinema asiatico fuoricircuito (vedi negli anni passati Malesia e quest'anno le Filippine post-Brocka. Khoo quarantenne all'opera seconda, ha studiato cinema a Sidney, è stato produttore, ha diretto cortometraggi (When the Magic Dies, 1985, fino al successo con Mee pook Man (95) e 12 Stories(97). Be with me girato in due settimane e prova della vitalità resistente della cinematografia a Singapore in altissima crescita produttiva, potrebbe essere definito un documentario «impuro» che cerca i comizi d'amore ai tempi nella tecnologia. Il telefonino (stessaossessione nel Hou Hsiao Hsien di Three Times) con due ragazze che si amano finché una non preferisce alla girlfriend il bel maschietto, l'altra si strugge con sms, chiamate non risposte e tutto il bagaglio possibile nella tecnologia più raffinata della telefonia mobile. E lo sguardo delle telecamere con un poveretto bruttino e ciccio che ama la bella inquilina del palazzo di cui è custode. Lei ovvio manco lo vede e a aggravare la frustazione del nostro di produce in erotismo alla finestra con l' amante di turno. All'improvviso dall'universo del sentimento formato Mtv si entra in quello di Teresa Chan, sorda e cieca ma non dalla nascita che è riuscita a ritrovare il gusto della vita grazie all'aiuto degli altri e a suo turno ora sostiene chi si trova nella sua condizione. Lei è un bel personaggio, il parallelo delle sofferenze (quelle vere e quelle superflue) di fastidioso moralismo cattolico. E con un'idea di documento eccentrico ugualmente fuori luogo, la realtà infatti è sempremessinscena se vera. Anche nel primo piano e senza virtuosismi da smartphone. da Il manifesto









   
 



 
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