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Nel 1962, firmando il "Manifesto di Oberhausen", alcuni giovani registi rivendicavano il rinnovamento del cinema tedesco con l’autonomia da un sistema produttivo unicamente ancorato al mercato. Erano gli autori che si andavano affermando in quel periodo, dai fratelli Schamoni ai Kluge, dai Reitz agli Schlöndorff. Alcuni anni dopo si univa al gruppo la berlinese Margarethe von Trotta che, con Schlöndorff (da lei sposato) avrebbe realizzato "Il caso Katharina Blum" (da un testo di H.Böll). Veniva così resa in immagini la sottile critica ad una città che si andava rinchiudendo nel suo atavico, puritano egoismo. La prima personale opera della regista sarebbe stata, però,"Il secondo risveglio di Christa Klages" (1977) che descriveva la vicenda di una insegnante che, per metter su un ideale Kindergarten, si spingeva fino a commettere un piccolo furto. Anche in questo caso era implicita la riprovazione per quelli ch’erano subito pronti alla ricerca di un capro espiatorio possibilmente ingenuo e disarmato. Nel 1979, "Sorelle o l’equilibrio della felicità" apriva la tematica che più volte avrebbe appassionato la regista. Si trattava, infatti, del difficile rapporto tra due sorelle: la più forte che invano tentava di salvare l’altra, fragile e depressa. L’accurata introspezione delle psicologie dava sostanza e colore alla sobria narrazione. Nel 1981, la von Trotta realizzava l’opera di più forte impegno: "Anni di piombo". Lei stessa aveva tenuto a chiarire che non era un film sul terrorismo (la "RAF" tedesca) ma di "un monito a non dimenticare tutto ciò che genera dubbi e provoca conflitti". Nella vicenda filmica si stagliavano di nuovo a confronto due sorelle: l’estremista finita in carcere e la femminista che le prodiga ogni premura pur non condividendone le idee. Ottimamente articolate risultano le sequenze delle lunghe attese, delle perquisizioni e le diffidenze di cui sono oggetto le due, perfettamente incarnate da Jutta Lampe e Barbara Sukowa. "Anni di piombo" otterrà il Leone d’oro a Venezia e il cospicuo premio del Governo Federale tedesco (300.000 marchi). Di nuovo su personaggi femminili verterà "Lucida follia" ma l’atmosfera è diversa, pervasa da echi romantici sia musicali (Schumann) sia pittorici (Caspar Friedrich). E per le inquadrature la von Trotta fa ricorso ad un filtro (alla Bergman) che serva ad attenuare le crude svolte della vicenda. A lei verrà affidato, nel 1985, il progetto per "Rosa Luxemburg" data la morte di Fassbinder, ch’era stato incaricato del film. La biografia della rivoluzionaria sarà stilata senza alcun pathos, col giusto equilibrio tra l’esistenza pubblica e privata della donna, uccisa nel 1919. Meno convincente apparirà "Paura e amore" (1988) vagamente ispirato al Cechov de "Le tre sorelle". Non ultima causa la disomogeneità del cast composto da attori di tre diverse nazionalità. Il 1990 è l’anno de "L’africana", opera dedicata alla memoria di Ingeborg Bachman, ma non esente da incertezze e digressioni. Intrigante è la rappresentazione di alcuni personaggi minori, (i due anziani in bisticcio continuo). Ben più preciso ed impegnato sarà "Il lungo silenzio" (1993) sull’assassinio di due magistrati italiani indaganti su traffici e tangenti. Ottime si presentano qui le performance dell’anziana Alida Valli e della giovane Carla Gravina. È evidente che alla von Trotta riesce bene la direzione delle attrici, anche perché è stata lei stessa interprete di molte pellicole tra il 1966 e il 1981. Del 1996 riprenderà a lavorare per la TV ("Winterkind") e per varie serie ("Jahrestage", "Tatort" eccetera). Nel 2003, tornerà al grande schermo con "Rosenstrasse" in cui viene ricostruito magistralmente un episodio storico non troppo noto: la protesta di numerose mogli "ariane" di ebrei rastrellati dalla Gestapo, e che si concluderà con la loro liberazione. La regista imposta la vicenda su lucidi e calibrati flash-back che danno la dimensione "storica" al fatto avvenuto tanto tempo prima (e passato sotto silenzio). Nel 2009 la regista ha realizzato "Vision", biografia della badessa Hildegarde von Bingen detta "l’enciclopedia vivente del Medioevo". E’ un "ritratto in piedi" di questa forte personalità di donna spesso in contrasto con vescovi e cardinali e non i sono celati i problemi della convivenza all’interno del monastero. Poi con partecipata modestia, si accenna appena alla poliedrica attività della badessa quale studiosa, pittrice e compositrice. Il risultato è di pregevole accuratezza, in linea con quanto di più serio ha fatto la von Trotta rispetto alla questione femminile nel corso della storia. In questa direzione, essa è riuscita ad andare oltre quel velo disteso ad hoc sul presente e sul passato della sua nazione, scartando il rischioso sentimentalismo e l’altrettanto inutile rabbia retrospettiva. Ha saputo, infatti, rappresentare problemi reali e dolorosi drammi con una prosa priva di asprezze e di voglie di rivincita. Proprio perché ha saputo calarsi ad esaminare le componenti molecolari della sua comunità (sorelle, amici, genitori) con eccezionale intuito sociologico nei confronti dei rapporti interpersonali. E si è posta così come una coscienza vigile per la Germania, in modo da indurla a riflettere sulle radici di certi arbusti spinosi (e talvolta tossici) da tagliare via per sempre.
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