«Si può fare quello che si vuole, ma bisogna pagarne il prezzo». E' in questa frase del padre una delle possibili chiavi di lettura de La ragazza del secolo scorso (Einaudi, pp. 387, € 18,00), politicissima autobiografia di Rossana Rossanda, da oggi in libreria. Perché dietro quel titolo apparentemente leggero c'è tutto il dover essere teso a cambiare il mondo di una generazione di militanti di ciò che abbiamo chiamato «movimento operaio organizzato», la convinzione di non trovare limiti se non nel costo da far pagare a se stessi in nome di una trasformazione necessaria. Un dazio che non era considerato un sacrificio personale, perché iscritto in un movimento che arricchiva - anche attraverso le sconfitte - la storia personale degli individui. E di costi Rossana ne ha pagati nella sua lunga vita. Li racconta inserendoli nella vicenda collettiva del movimento comunista internazionale, soprattutto in quel Pci che ne ha rappresentato una variante deltutto particolare. Ma sono costi che si potevano pagare (anche se oggi può sembrare incomprensibile ai più), «almeno finché il Pci organizzò ed espresse i senza mezzi di produzione», fino a quel momento «i suoi limiti, le sue rozzezze e settarismi o prudenze furono sopportabili». Per questo la storia della «ragazza del secolo scorso» - che dall'infanzia attraversa il fascismo, la resistenza, la militanza comunista a Milano e «l'ascesa» a dirigente nazionale a Roma - si interrompe al momento della radiazione dal partito, quando il costo era diventato troppo alto, non «limitandosi» solo a rinunce personali e politiche ma arrivando alla messa in discussione delle stesse ragioni che avevano portato migliaia di persone a dedicare tutta la propria esistenza alla politica e al partito-intellettuale collettivo. Quello che viene dopo è sì una continuazione in altra forma del prima, ma «è un'altra storia» - conclude Rossanda alludendo agli anni del manifesto - e vien da pensare che non è lastoria che più interessa alla fondatrice di questo giornale. Non per snobismo, ma perché lo scopo del libro è spiegare i motivi di una scelta di vita e provocare il mondo sulla sconfitta delle risposte date alle domande, visto che le seconde sono rimaste inevase e - per questo - attuali, mentre sulle prime nessuno ha voluto riflettere davvero, rimuovendo semplicemente una storia, «liquidandola» denuncia Rossanda. E lei pensa che questo sia il vero dramma, che da lì bisogna ripartire, altrimenti l'oggi precipiterà nel vuoto della politica come pura rappresentazione di un nulla privo di radici. La ragazza del secolo scorso è un libro facile da leggere ma difficile da digerire. Le pagine scorrono via piacevolmente - in un intreccio di episodi pubblici e privati - ma alla fine i nodi sono tutti lì, non sciolti, squadernati allo scopo di provocare riflessione, che per Rossanda è la principale natura della politica. «Cosa siamo stati e perché siamo stati così?», cioè perché i comunistiitaliani non hanno avuto il coraggio di andare fino in fondo nella critica del socialismo reale, almeno a partire dalle rivolte del `53 in Germania dell'est e del `56 in Ungheria («quando perdemmo per sempre l'innocenza»)? Perché i quadri e i militanti delle federazioni del nord non hanno saputo «imporre» al partito romano, all'alba degli anni Sessanta una visione meno consolatoria del capitalismo italiano («straccione e pauperista» lo bollavano a Botteghe Oscure quando era in corso il boom economico) e più attenta alla nascita di una nuova classe operaia, a quelle masse «trattate sempre come gattini ciechi»? Perché la sinistra del partito non ha avuto il coraggio di «rompere» con il moderatismo politicistico della direzione quando già si intravedeva l'insorgenza di un conflitto sociale (il `68-69) che poi avrebbe spiazzato il Pci, costringendolo a rimozioni o rincorse? Una risposta Rossanda la dà: «Il partito era l'unico luogo in cui non ci si sentiva soli, fuori di esso non saremmostati nulla». E' una logica dura - quella del costo da pagare, appunto - la stessa che fa venire alla mente un libro ben più tragico, Buio a mezzogiorno di Arthur Koestler, la vicenda romanzata dei processi staliniani del `36, la confessione-resa del «compagno Rubasciov» (al secolo Bucharin): «Ho pensato e agito come dovevo, ho eliminato persone che amavo e dato potere ad altre che aborrivo. La storia mi ha messo dove mi sono trovato: se ho avuto ragione non ho nulla di cui pentirmi, se ho sbagliato pagherò». Quel fine supremo, quell'aver di fronte un mondo di fuoco e acciaio, quel nemico sempre in agguato e sempre da sconfiggere, «costringono» il comunista alla supremazia dei fini sui mezzi e a considerare se stesso null'altro che un mezzo. Fino a far diventare il partito un fine, un moloch indiscutibile, altrimenti si è perduti. Ma Rossanda non conosce la resa del «compagno Rubasciov» ed è per questo che interroga e chiede a tutti di farlo i nodi irrisolti della sua storia che èstoria di tante e tanti. Non solo - anche se è una condizione essenziale - perché vive nel partito di Togliatti e non in quello di Stalin, nell'Italia del dopoguerra e non nell'Urss degli anni Trenta. Ma anche perché a ogni caduta e a ogni omissione c'è sempre una rinascita in cui trovare una via d'uscita persino gioiosa. Forse sarà quel relativismo incompatibile con il fanatismo della gente di confine trasmessole dalla famiglia mitteleuropea a Pola, ma il senso di colpa di non aver capito la tragedia totalizzante del fascismo se non con le bombe sulla testa si ribalta nell'azione della lotta partigiana; la delusione dell'esito democristiano che ghettizza le speranze della Resistenza si risolve nella scoperta del mondo operaio di cui si riempiono le sezioni comuniste nei sottoscala milanesi e nella gioia dell'agire comune; le tragedie del comunismo dell'Est europeo sono lenite dal distacco del partito italiano dalla stretta sovietica; le tristezze della vita romana d'apparato - lemeschinità di un partito sempre più pachidermico, sordo e maschilista - si allontanano con la frequentazione dei giovani intellettuali e sindacalisti che nel Partito comunista italiano cercano di portare le innovazioni della trasformazione sociale; la sconfitta dell'XI congresso e gli esili cui viene costretta la sinistra ingraiana si anestetizzano con il guardare ad altre realtà, ai movimenti del terzo mondo e alla freschezza intellettuale e politica delle nuove generazioni studentesche e operaie. Per ogni male c'è un rimedio, che rende accettabile il costo da pagare, finché il «movimento» rimane «uno». Poi non più. Ma da lì l'hanno dovuta cacciare, anche se oggi Rossana si dice convinta che, a quel punto, se ne sarebbe comunque andata lei. Ma a far che cosa? Questo è il punto. Per una militante che confessa di avere sempre paura (di fronte a un comizio o a dover intervenire in un convegno), ma poi «di andare sempre», per un'intellettuale che prima di «essere conquistata» dallapolitica pensava di fare la storica dell'arte, per una donna che considera la ferocia del decidere una caratteristica maschile, qual è lo sbocco altro, fuori dal «movimento unico»? Rimane l'imperativo kantiano, il dover essere e la ricerca di un luogo in cui esercitarlo. «E' una scelta di ragione - spiega -. Può darsi che l'aver patito sulla mia propria infanzia quell'essere travolti dei miei genitori dal terremoto (economico, ndr) del 1929, abbia determinato una intolleranza per l'eterodirezione delle esistenze che non ho mai dismesso. Non è una teoria, è una parte di me. Come sopportare che i più fra coloro che nascono non abbiano neanche la possibilità di pensare a chi sono, che faranno di sé, l'avventura umana bruciata in partenza? O c'è un Dio tremendo che ti mette alla prova e compensa nell'aldilà, o non si può accettare. Non ho fede e non posso che cercare di cambiare uno stato delle cose al quale non posso stare. Non è una scelta, è una condizione». Così la bambina nataborghese si ritrova adulta al fianco di quelli che mai avrebbe incontrato e che non si ponevano nemmeno il problema di scegliere, tanto netta era la loro condizione. E per questo - in questo libro che aiuta a capire il Novecento e il comunismo italiano anche a chi non ne porta i segni - Rossanda non separa le ragioni che l'hanno spinta alla politica dagli errori delle risposte date a quelle ragioni. Non è la nostalgia a spingerla a considerare quel passato almeno un tentativo di fronte alle dismissioni dell'oggi. E' un lucido bilancio che lascia aperte le conclusioni su una storia tutta da analizzare. E' un bilancio personale, narrazione scritta di uno sforzo intellettuale durato quattro anni: «Non è un libro di storia - dice - è la mia memoria di quella storia», che non bada troppo alle date o alla precisione dei documenti. Ma che punta alla sostanza di una vita passata in comune per ripensarne il senso. E sbatte in faccia al revisionismo politico il suo convincimento che il Pci -con tutti i suoi limiti ed errori - era meno peggio di ciò che si vorrebbe far credere; che se non si affrontano i nodi strutturali del capitalismo ogni scelta politica diventa inutile; che la testimonianza intellettuale se non comunicata in un agire collettivo si riduce a improduttivo sforzo individuale. E sono proprio le confessioni degli errori fatti (la rottura troppo tardiva con l'Unione sovietica, l'ingoiare fin troppo il conservatorismo degli apparati di partito, il distogliere lo sguardo dalle trasformazioni sociali sacrificate al rassicurante primato dell'autonomia del politico) a fare de La ragazza del secolo scorso un libro d'attualità che, attraverso una storia militante, mette a nudo l'impossibilità delle «comunità politiche» (piccole o grandi) di bastare a se stesse, le invita a uscire in campo aperto e - ammettendo l'avvenuta cesura - non si chiude nella sconfitta (con il relativo consolatorio oblio) del comunismo novecentesco. Non è l'ammissione di una sconfittadefinitiva, ma quella ricerca che ha dato vita anche a questo giornale. Di cui Rossanda non parla nel suo libro, «perché è un'altra storia» che ha ancora bisogno di capire le lezioni di quella precedente. Magari non in solitudine. da Il Manifesto
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