Per vincere, poco meno di un anno fa, le elezioni politiche della Gran Bretagna il leader conservatore David Cameron ha puntato tutto sul progetto di una "Big Society", slogan con cui ha riassunto il suo pacchetto di "riforme" all’insegna di un drastico taglio della spesa pubblica, dall’istruzione alla sanità, e di un progressivo affidamento ai cittadini della gestione di servizi oggi di competenza del settore pubblico. Ma se per la salvezza delle istituzioni britanniche il giovane erede di Margaret Thatcher ha pensato a un massiccio trasferimento di poteri dallo Stato agli individui, non sembra pensarla affatto allo stesso modo quanto alla convivenza di culture e religioni diverse all’interno del paese. Così, all’inizio di febbraio, aprofittando della Conferenza internazionale sulla sicurezza che si teneva a Monaco di Baviera, mentre l’incendio della primavera araba si andava estendendo a nuovi paesi, Cameron ha dichiarato senza mezzi termini ilfallimento del modello del multiculturalismo britannico, in base al quale ogni cultura mantiene il proprio profilo e il proprio spazio specifico all’interno della società, sostenendo che «la tolleranza passiva incoraggia la separazione» e che «lo Stato liberale deve imporre i propri principi». Affontando il tema dell’immigrazione e dell’integrazione degli immigrati, specie i giovani islamici, anche alla luce di quanto sta accadendo nel mondo arabo-musulmano, Cameron ha spiegato che «sotto la dottrina del multiculturalismo di Stato, abbiamo incoraggiato culture differenti a vivere vite separate, staccate l’una dall’altra e da quella principale. Non siamo riusciti a fornire una visione della società, alla quale sentissero di voler appartenere. Tutto questo permette che alcuni giovani musulmani si sentano sradicati». Perciò, per il premier britannico, «è tempo di voltare pagina sulle politiche fallite del Paese», lasciare da parte la «tolleranza passiva» per passare a un «liberalismoattivo, muscolare» che trasmetta il messaggio che la vita in Gran Bretagna ruota intorno a certi valori chiave: «Una società passivamente tollerante rimane neutrale tra valori differenti. Un paese davvero liberale fa molto di più. Esso crede in certi valori e li promuove attivamente». Che gli attentati del luglio del 2005 contro la metropolitana e gli autobus di Londra, costati 52 morti e centinaia di feriti, e realizzati da alcuni giovani adepti dello jihadismo islamico nati e cresciuti in Gran Bretagna, abbiano posto drammaticamente un quesito sulla capacità del paese di tenere insieme i propri cittadini di culture e fedi diverse, è evidente a tutti. Che la risposta muscolare indicata da Cameron possa rappresentare la soluzione, è meno certo e rappresenta infatti uno dei grandi temi al centro del dibattito pubblico britannico. Un buon punto di partenza, per capire cosa rappresenti concretamente, al di là degli slogan, il modello multiculturale del Regno Unito, è offerto da LondraBabilonia, Laterza (pp. 156, euro 15.00), il bel libro che a quella sorta di "vetrina" del multiculturalismo che è la capitale britannica ha dedicato Enrico Franceschini, storico corrispondente della stampa italiana, prima di Londra è stato a New York, Washington, Mosca e Gerusalemme. Tra il serio e il faceto, Franceschini offre prima di tutto una fotografia di cosa significi davvero vivere in una realtà multiculturale, dove sono "le differenze" a costruire la società, più che gli elementi di "omogeneità". «Il mio giornalaio è pakistano, il mio lavasecco è persiano, il mio medico di famiglia è italiano, il dentista è brasiliano, il veterinario è spagnolo, l’imbianchino è polacco, l’elettricista serbo, il fruttivendolo indiano, il meccanico dell’auto è bulgaro, la domestica lettone, il portinaio sudafricano, il parcheggiatore libanese, il custode della scuola di mio figlio è israeliano, l’impiegata della banca che mi sorride sempre è del Bangladesh, il barista che mi fa il cappuccinoè ungherese, il mio barbiere è una francese, il commesso del noleggio di dvd è turco, il tecnico del computer è russo e il mio tassista di fiducia è dello Sri Lanka. Mi fermo, ma potrei continuare per un pezzo: vivo a Londra da oltre sette anni e a volte mi domando dove sono gli inglesi». L’area metropolitana di Londra raccoglie circa un terzo degli abitanti dell’intera Gran Bretagna, paese che è, del resto, il più multietnico d’Europa. Non solo, recenti studi indicano come il trend sia in ulteriore crescita: nel 2020 in centri come Birmigham, Leicester o Luton gli inglesi bianchi saranno una minoranza, mentre, in prospettiva, i cittadini britannici di origine straniera diventeranno la maggioranza della popolazione. Del resto, sottolinea Franceschini, «la Gran Bretagna è stata invasa da immigrati delle sue colonie e di altri paesi, in una successione di adattamenti graduali: prima gli angli e i sassoni, poi i romani e i danesi, quindi gli ugonotti, poi ancora gli ebrei, poi gliafricani, i caraibici e gli asiatici». Via via fino alla realtà odierna che fa di Londra la città più multietnica della terra: «I soprannomi con i quali viene chiamata rivelano qualcuna delle sue anime, Londongrad per via dei russi, Londonistan per via degli islamici. Ma per tutti è World City, la Città-Mondo». «E’ la vendetta dei popoli colonizzati - spiega Franceschini - : gli imperi li conquistano e loro, i conquistati, penetrano poco alla volta nel tessuto sociale della madrepatria, diventandone presto o tardi cittadini a pieno titolo». Ma il punto è proprio questo: cosa significa diventare cittadini della Gran Bretagna? Se per Cameron il multiculturalismo è fallito perché non è riuscito a fare di tutti gli immigrati dei "buoni britannici", Londra Babilonia sembra suggerire un’altra ipotesi: «Se gli immigrati non diventano inglesi o britannici, e in fondo nemmeno lo desiderano, diventano in compenso cittadini di questa straordinaria metropoli multiculturale, multirazziale,multireligiosa». Non sarà che la Città-Mondo, a un tempo metafora e laboratorio del futuro che è già tra noi, offra con il suo stesso profilo, fatto di mille lingue e identità, una risposta all’altezza della sfida dei tempi? Franceschini pare esserne sicuro e ce lo annuncia spiegando come «Londinesi non si nasce. Si diventa». Guido Caldiron
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