RIVOLUZIONE DOC.
ORA I FILM POVERI SONO I PIU' RICCHI
 







di Roberto Silvestri




Se un bel pubblico (vivace, numeroso, sensibile, poliglotta, che fa belle domande agli autori) fa un buon festival, è assicurato il futuro del festival dei Popoli di Firenze, una delle manifestazione più antiche e per molto tempo prestigiose, del nostro panorama. Lo dimostrano l'entusiasmo e gli applausi di questi giorni per due opere reduci da Locarno. Il primo è un lavoro di accurato montaggio (più un'intervista, al cuore di Letizia Battaglia) In un altro paese di Marco Turco. Una produzione Rai che questa Rai di Petruccioli, Vespa e Curzi non hanno il coraggio di mostrare, né in prima né in ultima serata, perché i killer di Falcone, Borsellino e Lima sono telerepellenti come La piovra. E nonostante i microcompromessi che l'azienda impose, prima di censurare tutto. Dell'Utri, 9 anni di carcere per collusione alla mafia, che dirige la campagna elettorale di F.I., passi. Ma che in Sicilia non combattono solo poliziotti e magistrati onesti, nonriusciremo proprio a sentirlo mai nei film. In gara anche la produzione svizzera Per sempre della milanese Alina Marazzi sulle donne col velo (e col tatto: non lo sbandierano mica all'aperto). Che dice e osserva - con tanto di videocamera incredibilmente ammessa e un montaggio agnostico - due o tre cose sulle suore di clausura («non facciamo quasi niente? Bé neanche Gesù si dette troppo da fare, giusto due o tre miracoli in 33 anni ...») e sullo spirito eremita a Camaldoli oggi, che mai avremmo avuto il coraggio di udire e di vedere, e che potrebbero inchiodare al trono il neo-papa (mal) revisionista, ammesso che sia curioso e competente cinefilo come queste religiose. Alina Marazzi oggi a Roma presenta prima il dvd Fandango alla Galleria Sordi alle 18 e poi al Politecnico (via Tiepolo 13/a) proietta il dittico, Per sempre e l'incursione nei filmini e nei segreti di famiglia, Un'ora sola ti vorrei, dalle 18.30. Ma il «male oscuro» che paralizzò nel decennio scorso le nostreistituzioni, sia a livello di finanziamenti ai documentari sia di fraintendimenti sul senso dei festival, sembra superato. Solo chi cade può risorgere... Basta poi sprecare meno i pochi soldi a disposizione ed ecco che «i Popoli» diventano anche produttori, e, affiancando un po' Filmmaker milanese, presenta l'8 dicembre, in chiusura, i suoi gioielli, Doc ut des, 13 corti di giovani autori realizzati in collaborazione col centro di formazione Cscs di Pistoia....
Il cartellone dei Popoli di quest'anno è semplice e ordinato: un ritratto d'autore «inclassificabile» e obliquo (Jorgen Leth), omaggio a un' industria serie e eccentrica come la danese (senza inquietare nessun cinema è interessante) e la retrospettiva girerà poi nei d'essai, grazie a una nuova società specializzata, la «Vivo Film».
Due i concorsi, nazionale e internazionale (ma perché l'apartheid?), molte illustri firme invitate, sia tra chi filma che tra chi è filmato. Inoltre il documentario, impuro o classico o astandard ferreo Bbc, piace sempre di più. I boom dei pinguini, Herzog, Zapatero e del dvd «Scorsese/Dylan», non sono casi. Infine, molte case editrici (Fazi, Rizzoli, Fandango, Manifestolibri...), svegliate dal letargo di sempre dalla spavalderia commerciale di Einaudi e Feltrinelli stanno attrezzandosi per entrare nel mercato del «doc + libro». E allora ecco qualche consiglio. Land mines di Dennis O'Rourke (Australia), storia d'amore tra falcidiati dalle mine antiuomo a Kabul che cercano ma non trovano lavoro, eppure non mollano mai, come la Croce Rossa di laggiù, che utilizza nello staff i mutilati già con protesi per addestrare e rincuorare i terrorizzati nuovi feriti. E come gli afghani, neri di rabbia perché la loro terra è troppo bella per non aizzare desideri illetici altrui. Il film è stato premiato all'Asiatica Film Mediale di Roma, mentre ha vinto a Beirut Tropic of Cancer di Eugenio Polgovsky (Messico), come sopravvivere a Charco Cercado, stato di San Luis Potosi, dove ildeserto arido più di cactus, corvi da ingabbiare e serpenti a sonagli da essiccare non offre alla disincantata famiglia, armata di trappole e fionde, e ostile alla «redenzione metropolitana». Poema della povertà, ecologicamente scorretto ma stilisticamente asservito alle smancerie di ripresa e alla costruzione emozionale «di moda» (luci sporche, lunghi silenzi, piani suggestivi cosparsi di ferocia, incroci, stridenti, con la modernità, in questo caso camion e ricchi compratori che sfrecciano sulla statale) il film si crogiola nella propria impotenza, come un clone di Los muertos di Alonzo.
Allievo del Centro Sperimentale, e ottimo, sorprendente e indignato saggio di diploma, Inatteso di Domenico Distilo, un'altra geografia della sopravvivenza, che ci tocca da vicino. Perché smuove il nervo scoperto della nostra attuale miseria morale, il trattamento di chi chiede asilo politico e, in attesa di ottenerlo (anni, di trimestre in trimestre), sfugge, forse, all'annientamento. Non hacasa, lavoro, assistenza, aiuto psicologico, quasi che il nostro governo cerchi di emulare in torture psicofisiche le dittature da cui gli esuli provengono e che ci raccontano. In questo caso sono tre gli eroi «brechtiani» del poema incazzato, ma la loro odissea restituisce, come fosse un coro greco, quella di tutti gli altri, dando anima alle stazioni toccate (la Tiburtina di Roma, una giunta comunale campana di esseri umani, le terre e i letti dove si sfruttano gli stagionali...).E se lo stato li impiegasse nell'accoglienza dei clandestini non politici? da Il Manifesto









   
 



 
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