La città nell’era dell’informale C’è ancora un ordine?
 











Cosa distingue una città da un territorio? Dove finisce l’una e dove comincia l’altro? Che città è mai quella che si afferma nel dominio dell’informale e dell’assenza di progetto? Tutte domande che attraversano i saggi raccolti in un volume pubblicato di recente per le edizioni Punto Rosso, Ripensare la città (a cura di Emilio Baccarini, Andrea Bonavoglia e Aldo Meccariello, pp. 130, euro 10). Questa interessante raccolta è una rielaborazione del convegno "Centro e periferia", organizzato dalla rivista Kainòs in collaborazione con la cattedra di Antropologia filosofica dell’Università Tor Vergata di Roma, e invita a una riflessione articolata sulla città di oggi, considerando i suoi mutamenti sostanziali e i suoi problemi attuali, alla luce di una strutturale trasformazione che è stata sociale, economica, politica, ma prima ancora antropologica. La crisi della città è infatti speculare a quella del soggetto e porta i segni della nuova dimensione diesperienza inaugurata dal postmoderno. Il libro propone contributi di sociologi, urbanisti, antropologi e filosofi, secondo un impianto interdisciplinare, che risulta quanto mai efficace a tenere insieme i molteplici piani che la città include e rappresenta. Ne risulta un quadro problematico e aperto, che intreccia all’analisi la previsione e la proposta, ragionando anche sulle prospettive future.
La città è stata il prodotto per eccellenza dell’uomo e nella cultura greco-romana è divenuta una vera e propria struttura di identità, carica di valenza politica e culturale. Se ancora nella modernità il senso si costruisce a partire dal soggetto che si muove nello spazio urbano (flânerie, déambulation), stabilendo una relazione significativa tra interno ed esterno, coscienza e città, nel postmoderno l’esperienza della dérive configura invece - come sostiene Mario Costa - un soggetto al di là del simbolico, privo di identità e tale da presentarsi come il consumatore ideale di mercegeneralizzata.
Si tratta dunque di una trasformazione antropologica, strettamente legata alla nuova economia di mercato, che con la globalizzazione ha inoltre modificato strutturalmente il mondo del lavoro. La precarietà è diventata la cifra del postfordismo, e la crisi di identità della città non è indipendente dalla nuova forma assunta dal capitalismo. Le stesse categorie di "centro" e "periferia" infatti non risultano più attuali come nella società fordista, che realizzava una sorta di «spazializzazione dei rapporti sociali» - per dirla con Matteo Vegetti - attribuendo ai luoghi una precisa identità in relazione ai lavoratori che vi abitavano: così la collocazione degli operai nei quartieri periferici era funzionale alla costruzione di uno spazio organizzato da soggettività, che scaturivano dalle forme di produzione.
In tempi recenti, il passaggio dalla metropoli alla megalopoli testimonia invece di una disumanizzazione progressiva, come dimostra la deflagrazione dellospazio ordinato e quindi la perdita di senso e la conseguente disgregazione sociale, che comporta l’aumento dell’isolamento, dell’emarginazione e della violenza. Tale fenomeno è dovuto, secondo Massimo Ilardi, anche all’assenza oggi di un principio unificatore, quale poteva essere l’ideologia dei partiti di massa. La cultura individualistica del consumo ha preso infatti il sopravvento, e con essa si è passati da un’identità costruita sugli interessi diffusi al particolarismo, che oppone alla verità ideologica la relatività dei punti di vista e delle opinioni personali. Venuti meno i luoghi dell’abitare, capaci di costituire l’evento mondo, lo spazio contemporaneo risulta vissuto da individui desoggettivati o singolarizzati, che riescono tuttavia a stabilire inediti legami attraverso le nuove tecnologie. «Il mondo contemporaneo appare come caratterizzato dall’imprevedibilità e dal rischio - scrive Vincenzo Cuomo - per tale ragione appare, innanzitutto, come strutturalmente sfuggente aqualsiasi "pianificazione", a qualsiasi "progettazione". Ciò che sembra venire meno è l’efficacia dei piani di qualsiasi tipo, compresi quelli urbanistici... La crisi del mondo e della città, la crisi, forse irreversibile, del mondo-città, sembra investire alla radice la possibilità stessa dell’esistenza umana, in quanto pone in discussione l’idea stessa della natura umana come intrinsecamente "progettante"». Proprio le tecnologie, se da un lato alimentano forme singolarizzanti di relazione, dall’altro inaugurano, attraverso la rete, una nuova dimensione, alternativa a quella territoriale, capace di relativizzare le distanze fisiche e sociali, realizzando una città invisibile, telematica, in cui gli scambi di informazioni rappresentano una nuova forma di legame intersoggettivo.
Ne risulta una nuova immagine della città, caratterizzata dall’assoluta assenza di distinzioni al suo interno, una città come Los Angeles, senza centro, che suggerisce a Nancy la fine di ogni retorica del"costruire, abitare, pensare". Dalla verticalità, simbolo di potere e di gerarchie sociali, si passa - sostiene Gabriella Baptist - all’orizzontalità, che sembra alludere a un nuovo possibile ethos nella città postmoderna, aperta e chiamata a incarnare una modello maturo di cittadinanza e di partecipazione, esaltando la dimensione dell’ "essere con". È questa la grande scommessa che anche la politica ha di fronte oggi, per risolvere responsabilmente il problema del degrado sociale ed economico delle periferie, evitando una totale implosione e perdita di vivibilità dello stesso spazio urbano. Ma per farlo è necessaria anche un’attenta pianificazione urbanistica, ispirata a criteri precisi. Abbiamo sotto gli occhi esempi di grandi città, come Friburgo (caso sul quale richiama l’attenzione Andrea Bonavoglia), che hanno scelto di investire sulla qualità della vita, e quindi sullo sviluppo sostenibile e solidale, in particolare attraverso il potenziamento del trasporto pubblico, chedovrebbe essere privilegiato anche in Italia. Drammaticamente diversa è invece la fotografia di Roma illustrata da Paolo Berdini, che non avendo decentrato i luoghi di lavoro, né incrementato il trasporto su ferro, attira ogni giorno migliaia di automobili, mentre espelle i residenti storici, a causa degli altissimi valori immobiliari, contraddizioni che rivelano l’incapacità della politica italiana di governare il destino delle città. Roma è ferma a una vecchia organizzazione urbana, del tutto inadeguata alla nuova realtà sociale ed economica. Perciò le sue periferie sono luoghi abbandonati, caratterizzati - come scrive Scandurra - da un disperato presente, quello del consumismo, in opposizione stridente al centro, monumento di un glorioso passato. E le periferie romane ci parlano anche di un altro volto delle grandi realtà urbane contemporanee, fatte di vere e proprie «baraccopoli post-fordiste» (l’espressione è di Roberto De Angelis), i cui abitanti stranieri reclamano il dirittoalla casa, e di campi Rom, che rappresentano veri e propri ghetti. La politica italiana se ne occupa solo come un problema di ordine pubblico, invece di adottare un modello multiculturale, in grado di valorizzare le differenze, come accade nel Regno Unito. E questo limite aumenta la tensione sociale e produce un clima di insicurezza e di intolleranza crescenti.
Per evitare il collasso dell’umano, è urgente allora costruire innanzitutto una forma di relazione adeguata ai tanti e diversi abitanti delle nuove città. La vera scommessa è culturale, e trova nel dialogo e nell’accoglienza le risposte di una nuova antropologia reticolare - formula di Emilio Baccarini (Baccarini), capace di realizzare l’unità nel rispetto delle differenze, «secondo la logica della relazione e della connessione, una logica che esclude per principio ogni forma di marginalità come emarginazione». Stefania Astarita









   
 



 
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