Si potrebbe scrivere la storia d’Italia attraverso i terremoti. Sarà un’anomalia, ma ogni volta che un evento naturale di grandi proporzioni s’è abbattuto nel nostro paese sono venuti allo scoperto disfunzioni, ritardi, disprezzo delle regole, immoralità, gestione clientelare della sfera pubblica, inadeguatezza dello Stato e delle istituzioni, insomma i vizi più malefici del carattere nazionale. Dal terremoto di Messina del 1908 che inaugurò - si fa per dire - il secolo XX, passando per disastri naturali d’altro genere, alluvioni, frane e dissesti geologici, fino al sisma che due anni fa ha colpito L’Aquila si è ripetuta sempre la stessa storia, senza soluzioni di continuità. Ma ad uccidere non sono i fenomeni naturali - di per sé né buoni né cattivi, al massimo sono la causa efficiente. Ad uccidere è la (cattiva) organizzazione sociale ed economica, sono i ritardi nei soccorsi, il consumo dissennato di territorio, la speculazione edilizia, iclientelismi, la corruzione e i favori della pubblica amministrazione verso gli interessi privati, in una parola la noncuranza verso il bene comune. Questa frattura tra politica e collettività, tra Stato e paese, si è riprodotta tutte le volte che una catastrofe naturale ha colpito l’Italia: a Messina nel 1908, nella Marsica il 13 gennaio 1915, nell’alluvione del Polesine (che si sarebbe potuta evitare), nel famigerato terremoto del Belice del ’68 (che mise a nudo non solo la fatiscenza abitativa, ma anche il disagio sociale e l’arretratezza di un meridione abbandonato dallo Stato a se stesso). E, ancora, nel Friuli del 1976, il primo in "diretta" tv, pure ricordato come un raro caso di efficienza per la fase di ricostruzione, ma causato dall’assenza di abitazioni a norma. E che dire del terremoto in Irpinia che aprì gli anni 80, il decennio della Milano da bere e degli yuppies, quello che provocò il grido disperato di Enrico Berlinguer sulla questione morale? L’inefficienza e lagestione clientelare del dopo-sisma indussero il segretario del Pci a voltare definitivamente pagina rispetto al compromesso storico con la Dc. «Il terremoto - diceva Berlinguer in un’intervista di quei giorni - ha scosso gli italiani non soltanto per la immensità della tragedia umana, ma per il fatto che esso ha messo a nudo il punto estremo di contraddizione tra la condizione dello Stato e le esigenze più elementari del paese. Sono riemerse le responsabilità storiche per la decadenza e il saccheggio delle zone interne del Mezzogiorno, si è riproposta sotto una luce drammatica l’intera questione meridionale, che i teorici della "modernità" consideravano ormai accantonata per sempre... Il problema più grave non sarà il reperimento delle risorse da destinare al Sud, ma il loro impiego: a quale fine, attraverso quali strumenti, con quali garanzie che non si ripeterà un Belice moltiplicato per cento, con quali forme di partecipazione popolare e di controllo democratico? E con quali mezzidi prevenzione e di repressione dell’assalto clientelare e mafioso alla greppia degli stanziamenti pubblici?». Parole che si potrebbero estrapolare e applicare senza forzature anche al terremoto dell’Aquila del 6 aprile di due anni fa, ricordato proprio in questi giorni. Basta leggere per rendersene conto un saggio di Fabio Pelini, L’Aquila, scene da un terremoto, pubblicato all’interno del volume a più voci Malaitalia. Dalla mafia alla cricca e oltre (edizioni Guanda, a cura di Ranieri Polese, pp. 256, euro 26) che sarà presentato domani all’Aquila (presso l’auditorium della Carispaq, via Strinella 88, ore 17) in un’iniziativa organizzata dal Prc. Con l’autore ne discuterà Luisa Pronzato (giornalista del Corriere della Sera, anche lei autrice di un altro capitolo del volume). Sarà presente anche Liberazione. Il saggio di Pelini è una cronaca, giorno per giorno, di ciò che è accaduto in questi due anni trascorsi dal 6 aprile 2009. Un frammento alla volta è emerso un intreccio diclientele tra amministratori pubblici e imprenditori, una "cricca" che - stando alle indagini della procura distrettuale antimafia dell’Aquila - coinvolgerebbe il consorzio Federico II e il presidente, il costruttore aquilano Ettore Barattelli. Dietro il consorzio ci sono, oltre che l’impresa della famiglia Barattelli, «altre due aziende aquilane, Vittorini Emidio e Marinelli-Equizi» e, soprattutto, la «Btp del presidente dimissionario Riccardo Fusi, balzato agli onori della cronaca per il suo coinvolgimento nell’inchiesta di Firenze - poi passata per competenza a quella di Perugia - sui Grandi eventi e gli appalti del G8 a La Maddalena», quella che ha portato in carcere il presidente del Consiglio superiore dei Lavori pubblici Angelo Balducci e l’imprenditore Diego Anemone e vede come indagato lo stesso Guido Bertolaso. «Il consorzio Federico II si è aggiudicato appalti pubblici e privati nell’ambito della ricostruzione post-terremoto». Questo ed altro si legge nel saggio diPelini. Una storia che si ripete, quella delle clientele e del malaffare. Eppure, all’Aquila, qualche variazione c’è stata nel rapporto della politica con quel particolare evento che è un terremoto. Bisogna riconoscere che in passato i partiti erano in grado di suscitare movimenti di solidarietà di fronte alle tragedie umane. Grazie agli apparati organizzati di cui disponevano, funzionavano da canali di mobilitazione, come nel Polesine e a Firenze nel ’66 ad esempio, e ancora nel caso dell’Irpinia, a proposito del quale lo stesso Berlinguer poteva rivendicare: «Non si può nemmeno paragonare ciò che i comunisti hanno fatto e stanno facendo (abbiamo mobilitato migliaia e migliaia di militanti, tutte le nostre organizzazioni, al Sud come al Nord, abbiamo impegnato la Direzione e il Comitato centrale in un grande sforzo di idee e di proposte) con ciò che stanno facendo altri partiti. E tutto questo con assoluto disinteresse, ricercando l’unità e la fratellanza con tutti gli uomini dibuona volontà». Nel caso dell’Aquila non è stato così. I partiti di massa non ci sono più e le forme della politica non sono più le stesse. I partiti odierni, più che a organizzazioni di massa, assomigliano a vetrine luccicanti. Comitati elettorali che scendono in campo solo per sostenere leader in competizione tra loro. Anche se lo volessero, partiti del genere non avrebbero né la forza né gli apparati per funzionare come canali di mobilitazione - questo ruolo è supplito piuttosto dall’associazionismo e dal volontariato (le brigate di solidarietà di Rifondazione comunista sono un’eccezione). Terremoti, alluvioni, tragedie umane, semmai, sono diventati, in una sorta di rovesciamento strumentale, occasioni di ribalta mediatica. Il sisma dell’Aquila, ad esempio, ha rappresentato per il governo Berlusconi una platea nazionale, un serbatoio di sentimenti collettivi da utilizzare a proprio vantaggio. Dura da ammettere, i terremoti in virtù del loro suscitare reazioni emotive trasversaliin tutta la comunità nazionale sono per la politica una fabbrica di notorietà e consenso. Ciò che in un’epoca pre-televisiva sarebbe stato inimmaginabile, oggi, nell’era della comunicazione di massa, diventa oggetto di spettacolarizzazione, di diretta permanente, di rappresentazione di un dramma nazionale che non ammette critiche. Il merito del saggio di Pelini sta soprattutto nell’avere messo a nudo il rimosso della vicenda aquilano, quel conflitto simbolico per la narrazione, quell’occupazione da parte del potere dell’intera scena che fin dall’inizio ha ammesso un solo racconto, una sola versione degli eventi: quella ufficiale. Fin dai primi giorni dopo il terremoto la Protezione civile ha imposto un ferreo sistema di regole per l’accesso alle tendopoli. «Vengono allestite 172 tendopoli - scrive Pelini - ciascuna con un capocampo dai poteri non ben specificati, irregimentate in modo quasi militaresco: per andare a trovare un parente o un amico è necessario registrarsi all’entrata diogni campo, mostrando un documento di riconoscimento; non si possono scattare fotografie né tantomeno fare riprese; sarà vietato fare volantinaggi o tenere assemblee. Insomma, quasi come fosse una zona di guerra. Alle prime proteste, la Protezione civile replicherà che è per garantire la sicurezza all’interno delle tendopoli. L’effetto, comunque lo si giudichi, è di passivizzare le persone e impedire una narrazione degli eventi diversa da quella "ufficiale". L’ufficio stampa del Dipartimento della Protezione civile, infatti, dirama comunicati stampa a ritmo continuo, fornendo su tutto la sua versione, difficilmente verificabile dall’esterno proprio in virtù della militarizzazione del territorio. Non a caso, gli unici giornalisti tollerati sono quelli della grande stampa, che si muovono come embedded... e riportano la versione ufficiale senza ricercare autonomamente le notizie». Fuori dell’esaltazione del lavoro compiuto dalla Protezione non c’è alternativa, neppure la stampa locale sidistingue per autonomia. I pochi giornali critici rimangono isolati e inascoltati. «Solo dopo l’emergere delle prime inchieste della magistratura sul sistema gelatinoso intorno agli appalti della Protezione civile, la maggior parte della stampa cambierà atteggiamento e cavalcherà le inchieste». Tonino Bucci
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