La tesi di Samanta Di Persio non è certamente che in Italia esista la pena capitale, quanto, molto più realisticamente, che ci sia un diritto all’impunità e all’onore garantito a beneficio di tutti gli operatori di giustizia e di pubblica sicurezza che si rendono protagonisti di quelli che si possono definire omicidi di Stato. Minacce, torture, pestaggi e omicidi: se il 51% degli italiani fosse a conoscenza di quel che avviene nelle nostre carceri forse ci sarebbero meno solidarietà e rispetto per i carnefici e più per le vittime; esse, seppur detenute, non meritano certo macellerie messicane, se è vero come è vero che l’unico fine della pena è la rieducazione. Oppure, se vi pare, meglio evitare retorica e sentimentalismi ed introdurla, questa pena di morte: abbiamo già, e questa è cronaca giudiziaria, validi boia specializzati con lo stipendio già assicurato. "La pena di morte italiana" della Di Persio non è una santificazione del detenuto inquanto tale, ma un diario di chi non ce l’ha fatta, di chi è diventato vittima sacrificale od oggetto di sfogo per agenti frustrati o in cerca di generica vendetta. Rasman, Cucchi, Aldrovandi, Aprile Gatti e altri mille nomi impilati uno sull’altro e infilati nelle celle frigorifere riservate ai morti di Stato; e poi gli eroi moderni, quei familiari che dedicano ogni attimo della loro sopravvivenza a cercare verità e giustizia. Si disperano perché in "quel" momento non c’erano, perché il loro caro era da solo in mezzo a belve in divisa. Come rimanere indifferenti alle battaglie della mamma di Niki, o a quelle della sorella di Stefano? Manca, purtroppo, in questo libro, la storia di Giuseppe Gulotta, ergastolano per la strage di Alcamo Marina, torturato dai Carabinieri della squadra di un futuro eroe dell’antimafia e ora sulla via della revisione del processo; lui potrebbe essere uno di quelli che ce la farà, un innocente che dopo trent’anni di carcere potrebbe vincere. Uno su mille.Ma questa è un’altra storia. La Di Persio registra i sospiri, i pianti e la disperazione dei familiari e li trascrive fedelmente, creando un diario del dolore, di storie cancellate che cercano ancora giustizia. Solo una richiesta hanno, scrittrice e intervistati: che chi ha sbagliato, chi ha seviziato i loro cari, paghi, non con la vita, ma con una giusta pena. Che venga quantomeno sospeso dalle forze dell’ordine, che sia individuabile durante il servizio tramite un codice visibile sulla divisa o sul casco; che sia, insomma, un comune mortale. Richieste banali, storie comuni, dolori condivisi: ecco la foto di un’Italia crudele, carnefice e malata che non processerà mai i suoi aguzzini, perchè lo Stato non si tocca, così come i suoi figli, anche quelli illegittimi. Benny Calasanzio
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