Io, sulle tracce del Chapo il manager della droga
 











El Chapo, sulle prime non è un nome che dica molto. Eppure è uno degli uomini più ricercati al mondo, secondo - forse - al solo Osama bin Laden. E’ difficile immaginare che sotto questo nomignolo - chapo significa qualcosa tipo il bassotto - si nasconde uno dei boss della droga più ricchi e potenti del globo. Joaquín Archivaldo Guzmán Loera - di lui si parla - nasce nel 1957 da una famiglia di contadini nello Stato messicano del Sinaloa, in un piccolo villaggio di montagna. Un ragazzo come tanti altri che non ha possibilità di frequentare scuole. Un impiego lo trova, appena adolescente, per un boss locale della droga. Siccome cinismo e intraprendenza non gli mancano, diventa negli anni novanta il boss del cartello del Sinaloa. El Chapo è latitante dal 2001, da quando è evaso in maniera rocambolesca da un carcere di sicurezza dello Stato di Jalisco, nel Messico centrale. La Dea, l’agenzia statunitense che combatte il narcotraffico offre unaricompensa di cinque milioni di dollari per qualunque informazione utile a rintracciare colui che è diventato, a partire dagli anni novanta, il capo del più potente impero della droga del Messico e dell’intera America latina. Malcolm Beith, reporter americano, si è messo in viaggio sulle sue tracce attraverso le montagne e i villaggi messicani. Ne è nato un libro-reportage pubblicato di recente dal Saggiatore, L’ultimo narco (pp. 373, euro17), presentato dal suo stesso autore all’ultimo Festival del giornalismo di Perugia.
Lei racconta il contesto locale come quello messicano. Ma il narcotraffico non è un fenomeno globale, un sistema di potere che ha attecchito ovunque?
E’ un problema globale certo, tutte le organizzazioni criminali, sul modello della mafia, hanno un potere ramificato che attraversa i confini. Io mi sono focalizzato sul Messico perché noi osservatori stranieri potessimo capire quel che accade in quel paese e che a prima vista sembrerebbe semplice caos, disordine.Morti, omicidi violenti, migranti sgozzati, lì, sono uno spettacolo quotidiano. E’ come se il mondo fosse un corpo umano, un insieme di organi collegati tra loro. Se si manifesta il cancro in una parte, mettiamo in Messico, dopo un po’ il male viene fuori anche altrove. Dobbiamo analizzare le singole parti per capire il tutto.
E quali sono le condizioni specifiche del Messico?
Il narcotraffico opera secondo modalità diverse rispetto alle altre organizzazioni criminali. Negli Usa, il paese che consuma più droga nel mondo, ci sono le gang di spacciatori. A differenza che in Messico manca però un certo sistema di potere fondato sulla corruzione. In Messico i narcotrafficanti, la polizia, i giudici e anche i politici sono tutti quanti interni a un sistema corrotto, senza il quale il narcotraffico come modello sociale non potrebbe riprodursi.
Oltre al potere economico, al denaro, i narcotrafficanti hanno anche un potere sociale. Agli occhi delle popolazioni locali sono in grado difornire sicurezza, assistenza e lavoro. Altrimenti non si spiegherebbe il loro radicamento. Non è così?
I messicani vedono il narcotraffico come un pattern, un modello sociale. I capi narcos sono visti come persone che danno lavoro, fanno donazioni alle chiese, fanno costruire scuole, un po’ come la mafia. Quando sono stato in Sinaloa, la regione dove è nato Chapo, avevano appena montato una campana. Tutti sapevano che era stata messa grazie al Chapo - naturalmente non esistono prove, non ci sono fatture. Per decenni lo Stato a queste comunità non ha dato niente. Questo spiega perché i narcos si siano radicati e abbiano in un certo senso preso il posto dello Stato. C’è un’analogia con la mafia. Naturalmente è un’illusione che i narcotrafficanti regalino denaro, sicurezza e lavoro al popolo. Che lavoro è se ogni giorno rischi la vita? Tutti continuano a fare i contadini, non c’è stata nessuna emancipazione sociale ed economica del territorio. Le regioni del narcotraffico sonoesattamente come erano cinquant’anni fa. I soldi e le macchine di lusso nascondono solo una forma di schiavitù. D’altra parte, capisco questa povera gente, non hanno niente e dal governo messicano non ricevono niente. Per forza di cose si affidano ai narcos. Con tutto, che l’attuale governo è un po’ migliore di quello precedente.
Il Chapo è visto da alcuni come una sorta di eroe. Un criminale, certo, ma che uccide solo per guadagno. I nuovi narcos, invece, esibiscono una violenza gratuita, efferata, spettacolarizzata. E’ cambiato il codice del crimine?
Vero. Il Chapo non è un eroe, anche se alcuni lo ritengono tale. La maggior parte delle persone lo vede piuttosto the man in charge, the man in power, colui che ha il potere. Gode di rispetto, riverenza, fama. Lui è la legge. Nel Sinaloa si raccontano delle storie. Se ti rubano la macchina, è inutile che ti rivolgi ai poliziotti. E’ dal Chapo che si deve andare, lui può parlare con la famiglia del giovane che ha rubato la macchina,redarguire i genitori perché non danno buona educazione, e far restituire l’auto. Anche negli Usa avviene la stesa cosa. Alle baby-gangs non importa niente della polizia. Contano solo le regole e le gerarchia della malavita. Non c’è dubbio che il Chapo sia brutale. Ha sempre ucciso. D’accordo, non per piacere ma per business. Ma non è un alibi. Ciò non lo rende meno colpevole di altri narcotrafficanti. Solo che gioca secondo le regole del vecchio sistema. I narcos più giovani agiscono fuori delle consuetudini. Le regole sono cambiate. I cartelli sono in lotta tra di loro e nelle faide il livello di violenza aumenta. Fino a che i capi non si incontrano e decidono una tregua. Ma in questo momento il Chapo non ha più la forza di mettere tutti in riga, di pacificare i contendenti, di tenere tutto sotto controllo. Quindi, la brutalità aumenta. Di recente sono stati massacrati settandue migranti, senza ragione, se non quella di terrorizzare.
Noi pensiamo che il narcotraffico sia unfenomeno di arretratezza. In realtà è un moderno network finanziario integrato nell’economia globale. Non crede?
E’ parte del sistema, ma non è nuovo. Chi ha reso l’America ricca e potente? La famiglia Kennedy. Il capostipite della famiglia oggi sarebbe considerato un criminale a tutti gli effetti. I narcotrafficanti investono in hotel e in strutture turistiche, Acapulco è costruita in parte con i soldi del narcotraffico. Il riciclaggio è il business. I cartelli messicani della droga arrivano in tutto il mondo, sono nell’Europa dell’est e in Asia, anche. Investono soldi in proprietà per ripulire e riciclare il denaro sporco.
Gli Usa temono che il narcotraffico possa propagarsi anche entro i propri confini. Ma basta militarizzare il territorio e la frontiera col Messico per sentirsi sicuri?
E’sbagliato è prendersela con i migranti che arrivano dal Messico. Sono persone che sfuggono da un’economia di miseria e dalla fame. Identificare i migranti messicani in generale con itrafficanti di droga è l’errore più madornale che si possa fare. Come se fossero tutti spacciatori e criminali. Il 99 per cento della popolazione che arriva dal Messico non ha mai preso droga e non ne ha mai spacciato. Costruire un muro non serve a niente. Alimentare queste paure come in Arizona è pazzesco. Gli americani non conoscono bene la storia dei fascismi e non sono consapevoli di quali conseguenze può avere il razzismo e la fabbrica sociale della paura. Certo, gli Usa devono stare in guardia contro i cartelli messicani se vogliono evitare il rischio di una nuova mafia. Non vorrei apparire come un allarmista. Ci sono abbastanza leggi negli Usa per scongiurare scenari di violenza quotidiana come quelli messicani. Ma non bisogna sottovalutare il rischio. Tutti parlano della guerra alla droga, sarebbe meglio invece colpire il management della droga, il sistema di potere e controllo. Tonino Bucci

 









   
 



 
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