PER MARI E PER MISTERI LA VOCE DI MELVILLE
 







di Emanuele Trevi




Quella del racconto in prima persona è forse la più sfuggente, delicata, pericolosa delle tecniche narrative. Se ne dovrebbe scrivere la storia risalendo fino alle lontane origini epiche e alla situazione in cui l'eroe, come Ulisse alla corte dei Feaci e ancora Enea in quella di Didone, prendono a narrare le loro peripezie. Ovviamente, nessuno potrà sostenere che sia più «facile» scrivere un racconto o un romanzo in terza persona. A volte, per giunta, arriva un grande virtuoso a saggiare le potenzialità di altri soggetti grammaticali dell'enunciazione, come ha fatto in tempi recenti Agota Kristof con il «noi» del Grande quaderno. Ma sulla prima persona singolare moderna, così come viene fuori a metà dell'ottocento, pesa una specie di trauma originario. Come una mostruosa infiorescenza psicologica, l'io-che-racconta invade lo spazio, si ramifica, finisce sempre per raccontare se stesso qualunque sia la storia che racconti. Non fa nulla per nasconderei suoi difetti. Il suo modello sembra essere diventato non più l'esperienza in sé, ma il suo riflesso nevrotico. Pertanto, sa sempre qualcosa di più, e nello stesso tempo qualcosa di meno, di quanto ci si possa aspettare. Punta solo agli estremi: è inaffidabile, ed eventualmente illuminante. Proprio perché mente, potrà anche possedere e magari elargire la verità suprema, a patto di seguirlo fino al fondo del suo inganno. È questa la base dell'oscuro ricatto che un tale tipo di narratore esercita sui suoi lettori.
Sarebbe assurdo indagare la primogenitura di questa grande avventura letteraria. Più sensato è riconoscere la potenza delle invenzioni di alcuni grandi artistici romantici e post-romantici, come De Quincey e Dostoevskij. Ma una data capitale è sicuramente il 1851, l'anno del Moby Dick di Melville e della sua squillante, memorabile, apocalittica nota iniziale: Call me Ismahel, «chiamatemi Ismaele». Ci vorrà niente di meno del talento di Cesare Pavese per offrire un possibileequivalente italiano di questa incredibile trappola narrativa e psicologica che è la prima persona di Moby Dick. Nel 1851, comunque, con grande sconforto di Melville e dei suoi pochi amici, nessuno capì nulla. Raramente il passo era stato così tanto più lungo della gamba. Melville non si riprese mai dallo sconforto, tanto che il pur stupendo Billy Budd, uscì postumo solo nel 1924. Fortuna migliore era toccata ad altri suoi libri ispirati al mare e all'esistenza da marinaio, come Typee (1846) e Omoo (1847).
Un particolare significato sulla via che avrebbe portato al capolavoro è rivestito da Redburn, il romanzo del 1849 che rievoca le prime esperienze dello scrittore su un veliero mercantile, risalenti a dieci anni prima. A vent'anni appena compiuti, infatti, Melville si era imbarcato sul «St.Lawrence», attraversando per la prima volta l'Atlantico, da New York a Liverpool e ritorno. È lo stesso percorso dell'adolescente Wellingborough Redburn, raccontato in prima persona nel libroche porta il suo nome. Non inedito, ma in pratica semi-clandestino in Italia, oggi Redburn ci viene proposto nella bella traduzione di Fabrizio Bagatti (Marlin, pp.371, euro 13,90), autore anche di un ottimo apparato di note che si legge comodamente nell'unico posto dove le note devono stare, cioè in fondo alla pagina, e non in coda al volume secondo lo sciocco e pigro uso moderno, dove non le legge nessuno.
Il criterio di lettura che porta a confrontare Redburn con quello che sarebbe stato l'imminente Moby Dick è allo stesso tempo giusto e sbagliato. Sbagliato, senza dubbio, perché Redburn - un bellissimo romanzo di mare, il resoconto (in gran parte autobiografico) di una vera iniziazione al mondo - può essere goduto e amato di per sé. D'altro canto, è proprio il modo di raccontare in prima persona di Redburn che quasi automaticamente suggerisce un confronto con Ismaele. Molto meno imprevedibile, polifonica, visionaria di quella del suo più celebre fratello, la voce di Redburnpossiede comunque un suo tono poetico inconfondibile, al quale ci si affeziona man mano che scorrono i capitoli del suo lungo resoconto. Si potrebbe considerare Redburn come un Ismaele che ancora non avesse perso la sua innocenza, che non avesse già conosciuto le oscure regioni del tedio e del disincanto. All'Ismaele della Bibbia, comunque, è lo stesso Redburn a paragonarsi alla fine del capitolo XII, parlando delle difficoltà incontrate da un giovanissimo mozzo, del tutto inesperto dei lavori del marinaio, nel tentativo di farsi accettare dagli altri membri della ciurma ed evitare le loro crudeltà.
Redburn si sente simile al modello biblico di Ismaele poiché sta sulla nave «senza amici né compagni». Figlio di Abramo e Agar - la donna comprata in Egitto a causa della sterilità della moglie Sara - Ismaele viene ripudiato assieme alla madre quando Sara finalmente è capace di partorire Isacco. Questa ingiustizia commuove la sensibilità di Melville, ma l'identificazione del narratorecon una progenie illegittima e ripudiata non ha solo una valenza patetica. Come accade agli eroi di innumerevoli mitologie, è dall'essere orfano, «senza amici né compagni» che il narratore di Melville deriva la sua forza, la sua chiaroveggenza, la sua capacità di distinguersi dal destino comune. Non sarà forse il narratore di Moby Dick l'unico membro dell'equipaggio del Pequod che scampa alla catastrofe finale? Quanto al meno «messianico» Redburn, il suo non facile compito consiste nell'imparare che cos'è, in effetti, il mondo. Arrampicandosi sulle sartie senza farsi prendere dalle vertigini, per esempio, o resistendo alla brutalità dei marinai più vecchi, imparando la loro lingua, dove non esistono «secchi» ma solo buglioli e dove una normale «scheggia di legno» si chiama caviglia. Se Redburn è capace di raccontarci le sue avventure, vuol dire che la sua fatica di adattamento e comprensione è andata a buon fine, e lui è sopravvissuto all'urto con il mondo. Ma la genialità di Melvilleconsiste appunto nel trasformare questo semplice presupposto nel motore primo del racconto e in fin dei conti nel suo esclusivo argomento. In altre parole, Melville adatta alla sua potente originalità artistica lo schema aperto e sempre disponibile del romanzo di formazione, ma evita accuratamente le «scene madri», le scelte decisive, le rivelazioni irreversibili. Diffida di questi espedienti narrativi perché li sente troppo artificiali, troppo incapaci di rendere effettivamente conto dello spessore umano del suo protagonista. Le famose «linee d'ombra» sono infinite, e ci si parano davanti ogni secondo della vita. E soprattutto, dal punto di vista della formazione del carattere, ciò che rimane incomprensibile ha lo stesso peso di ciò che invece viene capito e correttamente interpretato.
Così, nella parte «di terra» del romanzo, quando Redburn scappa da Liverpool a Londra con l'amico Harry Bolton, un altro orfano assoluto come lui, non capisce niente dell'avventura che vive, e alnarratore non resta che riferire eventi misteriosi e destinati a rimanere tali, per lui come per il lettore. Ma è proprio in questo mistero che sovrasta ogni tipo di esperienza possibile che sta la forza del racconto di Redburn, come quella di Ismaele. Proprio perché l'asse ereditario della realtà, per così dire, li esclude, proprio perché le cose di cui parlano non gli appartengono, i narratori di Melville ci sembrano sempre più vicini degli altri al cuore della verità. Per quante bugie possa eventualmente contenere, la loro testimonianza di figli che hanno dovuto fare a meno dei padri è la più ricca, giusta, umanamente verosimile.da Il Manifesto

 


 









   
 



 
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