Martedì 5 agosto, una settimana prima che Amir ed io fossimo rapiti, l'esercito del Mahdi con un attacco a sorpresa riprese il controllo della parte nord di Nassiriya. L'Iraq era ufficialmente un stato sovrano, dopo il passaggio di poteri del 28 giugno, e quindi l'esercito italiano fu coinvolto solo dopo una richiesta ufficiale di aiuto dal governatore di Nassiriya. Restai a guardare mentre i nuovi blindati italiani venivano fuori a tarda sera, viaggiando a 50 miglia (80 Km) all'ora lungo la strada che era stata recentemente aperta attraverso il deserto per un più rapido accesso. Entro venerdì mattina, il combattimento finì e la situazione era sotto controllo, secondo quanto riferito dal capitano Ettore Sarli, portavoce capo delle forze italiane in Iraq. «C'è stato un tentativo d'attacco con un'autobomba la notte scorsa», mi disse Sarli mentre cercavo notizie, «Non si sta troppo sicuri a Nassiriya, vero?». Un'autobomba a Nassiriya non era un fattocomune. Non avevo mai sentito di alcuna autobomba in quella parte dell'Iraq, a parte l'attentato al quartier generale italiano di Nassiriya, soprannominato «Animal House», nel novembre 2003, otto mesi prima. Diciannove soldati italiani furono uccisi, e subito dopo gli italiani avevano spostato le loro operazioni fuori della città. [...] Andai con un gruppo di giornalisti italiani per documentare i combattimenti. I funzionari dell'ufficio stampa ci scortarono solo fino alla periferia della città, ma non c'era nulla da documentare e quindi facemmo ritorno al complesso residenziale per i giornalisti alla nostra base. Un generale italiano in pensione, che aveva deciso di diventare giornalista e di girare il mondo, stava fissando una mappa di Nassiriya appuntata alla parete. Aveva interesse per l'archeologia e avevamo iniziato un'amicizia, discutendo come meglio potevamo, in un miscuglio di inglese ed italiano sgangherati. Mi chiese se ero stato al ponte. Autobombeimbottite di gente «Quale ponte?». «Il ponte dove c'è stata l'autobomba», disse lui. Qualcosa aveva acceso il suo interesse. Trovai il rapporto stampa ufficiale in italiano: vi si parlava di un tentato attacco contro i soldati italiani con un'autobomba, i soldati italiani avevano sparato contro il veicolo che era esploso e quattro persone vi erano rimaste uccise. Mi chiedevo: e da quando le autobombe vengono imbottite di gente?[...] Terminata l'intervista andammo al Direttorato della Salute, dove le ambulanze vengono smistate. Una dozzina di persone erano riunite nel piccolo edificio degli uffici. Ci offrirono un tè e ci confermarono la storia. L'ambulanza numero dodici era stata inviata alle tre antimeridiane di venerdì per trasferire una donna incinta, che aveva un travaglio difficoltoso, e la sua famiglia dall'ospedale generale situato nella zona nord della città all'ospedale per le maternità nella zona sud, attraversando il fiume. L'esercito italiano, dislocatoal lato sud del ponte, sparò contro l'ambulanza mentre essa lo attraversava. L'ambulanza prese fuoco e quattro dei passeggeri all'interno furono uccisi. L'autista e due persone sedute davanti con lui riuscirono a salvarsi. Sei ambulanze simili erano parcheggiate all'esterno, con i grandi numeri che gli italiani avevano assegnato per l'identificazione dipinti sulla carrozzeria. L'ambulanza numero dodici mancava. Un addetto del Direttorato della Salute ci prese e ci portò ad intervistare l'autista, Sabah Khazal Kereem, nella sua casa di Nassiriya. Lui fu sorpreso del fatto che un giornalista occidentale mostrasse interesse per quella storia. Essendo sopravvissuto con ferite non gravi alle gambe, era amareggiato per quel che era successo. La sua era stata la prima ambulanza giunta sulla scena per soccorrere i sopravvissuti all'attacco al quartier generale italiano del novembre passato, facendo cinque viaggi all'ospedale con soldati italiani feriti. Si considerava un amico degliitaliani. Per una sorprendente coincidenza, era ancora lui il celebre autista che aveva soccorso Jessica Lynch, sempre nell'ambulanza numero dodici, trasportandola dalMukabarat, la sede della polizia segreta irachena, all'ospedale di Nassiriya. Ci mostrò molte lettere di ringraziamento del pfc (private first class - caporale scelto) Lynch, che aveva ricevuto per il suo buon lavoro.[...] Amir ed io ci dirigemmo verso Nassiriya per intervistare il direttore dell'ospedale, ma lui non era in sede. Invece il capo della sorveglianza dell'ospedale ci condusse a riprendere i corpi dei componenti della famiglia che era stata sterminata. Erano conservati in un locale frigorifero dietro l'ospedale. In Islam si usa seppellire il morto entro ventiquattro ore, ma dal momento che l'intera famiglia era stata sterminata, l'ospedale aveva difficoltà a rintracciare un parente che reclamasse i corpi. Mi coprii la bocca con un fazzoletto e tentai varie volte di effettuare la ripresa all'interno dellocale frigorifero. Il fetore era così violento che potevo girare solo pochi secondi alla volta. I corpi avevano subito severe ustioni, un ammasso scuro di carne carbonizzata e maciullata avvolta dagli indumenti. Potei osservare la faccia grigio-violacea di un uomo perfettamente conservata, con gli occhi chiusi. «Il Baby», disse la guardia in inglese, indicando qualcosa che poteva essere stato uno stomaco sventrato. Non riuscivo a distinguere un bambino. Ormai prossimo a vomitare, mi allontanai precipitosamente. Il direttore dell'ospedale incappò in noi mentre attraversavamo il cortile. Tirò Amir da parte e gli parlò con aria severa, in arabo. Amir si dette da fare per placarlo, e lui ritornò al suo ufficio in nostra compagnia. Non voglio grattacapi «E' tutto a posto», mi rassicurò Amir. E poi a voce bassa continuò: «Dice che saremmo dovuti passare da lui, prima di riprendere i corpi. Non vuole grattacapi di alcun tipo. Non vuole guastare le sue relazioni congli Italiani». Io sapevo come si sentiva. Al momento di andar via, il direttore fece entrare due uomini che erano stati appena dimessi dall'ospedale. Erano proprio quelli che si trovano seduti davanti nell'ambulanza insieme all'autista, ed i loro racconti erano congruenti con tutto quanto avevo già udito. Quando finimmo con le interviste, fummo invitati a prendere un tè con il colonnello Suleiman, capo del Servizio Protezione Infrastrutture (Facility protection service, Fps) dell'ospedale, l'organizzazione responsabile della protezione delle infrastrutture essenziali in Iraq. Il colonnello Suleiman ci mostrò un grosso dossier di documenti e fotografie riguardanti l'incidente dell'ambulanza. Durante precedenti scontri fra le forze italiane e l'esercito del Mahdi, lui aveva provato a trasportare civili feriti attraverso il ponte. Al fine di permettere il sicuro passaggio dell'ambulanza si era strappato di dosso tutti gli indumenti fino a restare in mutande, camminando lentamente finvicino ai soldati italiani affinché non lo scambiassero per un attentatore suicida. Anche due guardie del Fps erano state uccise nei combattimenti ed il colonnello Suleiman era sconcertato dalla inusuale goffaggine delle forze italiane. Ma era la totale negazione di responsabilità da parte dell'esercito italiano che lo irritava. [...] Quarantacinque minuti dopo ero ancora seduto nel cortile quando gli uomini della polizia militare ritornarono e mi chiesero di seguirli. Mi riportarono nello stesso locale dove ero stato la notte prima. Attraverso una porta chiusa potevo sentire Amir parlare concitatamente nel rimorchio contiguo, ma non riuscivo a comprendere le parole. «Posso essere d'aiuto?», chiesi. Nessuno rispose. Uno dei poliziotti sollevò un paio di manette, facendole oscillare lentamente e osservando le mie reazioni. Lo fissai negli occhi e ridacchiando mi voltai versol'altro poliziotto. «Allora? Seriamente, che cosa volete?», ripetei. Il poliziotto mise giù lemanette. «Abbiamo da farle alcune domande... i nastri di ieri, già. Abbiamo bisogno di quelli originali», disse. «Io sono stato in piedi tutta la notte scorsa per farvi una copia su dvd. E inoltre, non c'è nulla che non possiate ottenere voi stessi, senza aiuto. Andate ad intervistare l'autista dell'ambulanza. Vi ho dati i nomi di tutti quelli che ho intervistato. Quindi andate ed intervistateli da voi». «Certo, ma vede, non ci è possibile andare a Nassiriya, ora». Dubitavo che questa fosse la verità, visto che truppe italiane stazionavano in prossimità del ponte. «Può darsi che sia così, ma questo non mi riguarda», dissi. «Sì, sì , d'accordo; attenda un attimo». Loro si concentrarono sul da farsi mentre io aspettavo. Dopo una mezz'ora un poliziotto venne fuori dal locale dove Amir veniva interrogato. «Sembra che abbiamo un problema», disse fissando il pavimento e scuotendo la testa. «Quale?», domandai. «Lei oggi è andato a Nassiriya a intervistare delle personeriguardo l'ambulanza?». «Certo. Sono un giornalista. Vado e intervisto la gente». «Ed ha ripreso i...», cercava di ricordare la parola inglese, «...cadaveri?». «Corpi morti», aggiunse un altro. «Sì, erano in un locale frigorifero dietro l'ospedale». Ci servono quei nastri «Bene», disse guardando intorno. «E' questo il problema. Abbiamo bisogno di quei nastri al più presto». «Ascolti», dissi con crescente impazienza, «voi non potete proprio chiedermi di darvi i miei nastri. Sono i miei nastri. Non avete alcun diritto di chiedermi di consegnarvi quel materiale». Un altro tizio si intromise e cercò di spiegare. «Sì , sì . Ma vede, talvolta il lavoro di un ufficiale di polizia e quello di un giornalista - cercava le parole adatte - si confondono. A volte capita che un giornalista assuma il ruolo di un investigatore ufficiale. A volte. Mi intende?». «No, io non intendo», protestai. «Io faccio il mio lavoro e voi il vostro. Sono diversi. Vi ho dati inomi di tutti quelli che ho intervistato, e ieri vi ho fornito una copia delle interviste. Stavo riprendendo dentro Nassiriya, nello stato sovrano dell'Iraq. Non ho fatto riprese della sparatoria contro l'ambulanza, ho soltanto intervistato delle persone riguardo a ciò che era avvenuto dopo i fatti». L'esercito italiano era parte della coalizione, quindi presumevo che esso rispettasse le leggi che proteggono la libertà di stampa. Ma eravamo in Iraq e io ero all'interno della base italiana. Non sapendo più cosa aspettarmi, dissi loro che ero intenzionato a tornare a Baghdad perpochi giorni e che avrei potuto fare un'altra copia. Loro accettarono con riluttanza. [...]
|