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Nella città che come tutta la Francia fa i conti con una generazione che non ci sta a Cpe, precariato, cinismo mascherato da accondiscenza - le reazioni di quelli, anche a sinistra e non sono pochi, che dicono sì però sono un gruppetto alludendo agli studenti della Sorbonne - il festival del Cinéma du réel sembra moltiplicarsi, sorpassando i suoi schermi disseminati tra Centre Pompidou, centro culturale belga, Istituto del mondo arabo (coi titoli aggiunti alla retrospettiva siriana). Documentari, cioè realtà. Quella del mondo globalizzato in azzeramento di diritti e gradazione di consapevolezza, effetto dilagante di un modello unico di cui cambiano non le regole ma modi e reazioni alla loro applicazione. Ecco che allora mentre gli studenti francesi annunciano nuove lotte per i prossimi giorni, in India incontriamo John e Jane tra i protagonisti del film che dai loro nomi prende il titolo, due fra le migliaia di impiegati nei call center cherispondendo a clienti americani fanno credere di essere negli Stati uniti mentre sono a Bombay. Non è nuovo, però non li avevamo mai visti raccontarsi in prima persona con un volto, un nome, un quotidiano che non sia il suono della voce che consola, assiste soprattutto gli anziani, organizza viaggi, promuove assicurazioni per malattia a prezzi vantaggiosi e nuove carte di credito. Nell'introduzione al catalogo, Marie-Pierre Duhamel Muller, direttrice artistica del festival, scrive: «cosa fare di oltre 18000 cassette e dvd? Vedere i film come sono e come sono fatti ... sapendo che nelle scelte non si farà né un bilancio né un manifesto ... Vedere la storia al lavoro perché i legami si rinnovino, il presente sia visibile e il cinema documentario sappia rendere ciò che è fugace..». Una selezione «aperta» dunque, e in modo più che dichiarato, composta non da una linea ma dalle molte inquietudini produttive, di scelta del punto di vista, di linguaggio che oggi compongono il confronto conl'immagine. E, appunto, con la realtà sia essa nella lente della fiction che del «vero » dove comunque la separatezza, il confine, non sono più netti. Anzi, al contrario, il documentario oggi è nella sua cifra poetica e politica messinscena, corpo a corpo del personaggio che distilla la storia e del cineasta (o narratore) che nell'esperienza singola cerca (anche) di produrre identità collettiva. Torniamo a John&Jane che è diretto da Ashim Ahluwalia, nato in India nel 72 e cresciuto a New York, poi tornato a Bombay dove ha fondato la sua società di produzione - John&Jane è il secondo film , il primo Thin Air è del 2000. Sei ragazzi e ragazze ci dicono delle loro notti in cuffia, dei corsi d'inglese per arrivare a un accento perfetto, delle 14 ore incollati alla postazione senza neppure il diritto alla toilette (altrimenti si perdono punti e soldi), delle mattine che passano a dormire tornando a essere Oaref invece che Osmond, o Namrata biondo ossigeno e accento Midwest invece diNaomi. Ma anche dei disagi per qualcuno, insofferenza, voglia di mollare. Contro invece l'accettazione e il sogno di andare in America di altri, laddove come dicono si diventa ricchi. Senza sapere che è anche quello un paese di povertà micidiale. È insomma contro questo che occupano e scendono in piazza i ragazzi francesi, contro un meccanismo che diventa sempre più irreversibile - e a quel punto senza uscite. Scrive su un blog un ragazzo: «noi, i cosiddetti giovani, vogliamo avere nel mercato del lavoro gli stessi diritti di chi ci ha preceduto». Nel controcampo pietre, silenzio, miseria. Siamo in Iran, a Naft Sefid che vuol dire petrolio, la ricchezza di una città oggi divenuta fantasma. Il petrolio non c'è più, gli abitanti sono in miseria, per vivere spaccano pietre, i bambini si fanno male giocando, i corpi ustionati dalle fughe del gas ancora attivo... Naft Sefid di Mahmoud Rahmani è un film breve che nel suo tempo molto dice su paesaggi, trasformazioni economiche, traumiambientali che sono anche d'emozione. Della instabilità di un'economia a senso unico come oggi l'intera struttura iraniana basata sul petrolio ricchezza e guerra annunciata. Il vecchio spacca pietre racconta la sua fiaba, c'era una volta un paese meraviglioso, quel che resta oggi è miseria e desolazione. Iraniano come Mahmoud Rahmani è anche Mehrdad Oskouei regista di Maryam dell'isola di Hengam. Stesse atmosfere sospese, stesso svolgimento narrativo di ritualità quotidiana. L'isola di Hengam, ci dice la voce off, è a più di 1000 kilometri da Tehran, divisa in due parti concentra l'abitato nel lato moderno. Quello antico è deserto, rovine, giardini, il mare. E Maryam con suo marito vivono lì, coltivano la terra, pescano, allevano galline e capre. Lei ha il volto coperto da un burka formato maschera, lui ha sempre occhiali scuri, sembrano una coppia rock. Finché non arriva la guerra, il film è girato prima dell'invasione americana in Iraq, e i due devono lasciare sempre più spesso lacasa. Il senso di presente instabile e no future imposto, non più scelta punk, è disseminato in tutte le immagini. E in quel conflitto/confronto di cui si diceva potenziato dalla produzione in digitale che molto permette ma anche molto rischia. La scelta del punto di vista. Non è questione di mezzo, non solo almeno, e neppure di storia. È importante come la racconti e come metti l'obiettivo, ci dice un amico cineasta. Persino ovvio, eppure. Tra le tendenze va molto l'home movie. O meglio la narrazione familiare-domestica, neanche più supportata da materiali d'archivio che non siano vecchie foto o filmini familiari. Lo scopo ricostruire una memoria composita sia che si parli di guerre, che di massacri, stermini, occupazioni. Il pericolo l'autocompiacimento che non racconta nulla, l'eccesso di «potere» del personaggio che seduce il regista come accade in Lick Salt del canadese Ryan Feldman, insopportabile diario in prima persona dell'incontro tra lui e la nonna di origine polacca, i cuivuoti di ricordi sono un modo per cancellare le terribile esperienze d'infanzia, i pogrom nella Polonia degli anni Dieci, prima di emigrare in Canada nel 1920, la durezza della madre, il marito morto da poco che la tradiva, il figlio padre del regista che l'ha rifiutata, la bellezza andata via, la vecchiaia in solitudine. Un dialogo quasi monologo a volte insostenibile. Stessa linea di sguardo che sceglie Amram Jacoby per Saba (Nonno), dove Avranham Ezequiel, 92 anni, nato in Iraq, studi a Singapore, giornalista per il Palestine Bullettin, tra quelli arrivati in Israele nel 29, quando era ancora Palestina, racconta il suo passato e parla del presente leggendo i testi sacri in arabo e in ebraico. Vi cerca la pace, gli spazi comuni tra le culture, la sua è radice di diaspora e utopia che però nella fascinazione del nipote per lui scompare senza divenire neppure fuoricampo. Un bimbetto biondo e la scoperta della sua immagine, di lui come è nello specchio. Anche Svyato è attimo minimale,il bimbetto che ne è scatenato protagonista è il figlio del regista, Viktor Kossakovski, autore conosciuto e molto premiato che qui segue l'esperienza del figlioletto (Svyato è il primo film di una trilogia, Palindromo) per farne però un'esperienza di cinema. Quasi un piano sequenza che distilla filosofia, divertimento, complicità paterna e malizia del bimbo che a due anni scopre l'obiettivo, ne è cosciente e lo rivela, Svyato esce dal film familiare inventando continuamente la sua immagine. Gioco dell'obiettivo, incrocio di sguardi, linee di fuga. Si può narrare con questo e fare un film. Anzi a volte, come ci dice Joao Botelho in A luz na Ria Formosa è solo questione di luce.da Il manifesto
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