Aung Sang Suu Kyi Orchidea d’acciaio della democrazia
Il Festival del pink carpet (così ribattezzato in onore dell’alta presenza di autrici e personaggi femminili) si è giustamente aperto con il fuori concorso di Luc Besson The Lady. Un ritratto fedelissimo del premio Nobel per la pace Aung Sang Suu Kyi, dalla morte del padre nel 1948, alle manifestazioni dei monaci buddisti del 2007. Fortemente voluto dall’attrice protagonista Michelle Yeoh, il film nasce come una docu-fiction ricca di eventi storici. In mano a Luc Besson gli eventi politici si fanno leggermente più sfumati per lasciare in primo piano la storia d’amore tra Suu Kyi e il marito Michael Aris. Una prospettiva originale, trattandosi del raro caso in cui una donna con un’alta responsabilità civile e politica viene supportata dal suo uomo, che decide di sposare gli ideali della moglie e crescere i bambini della coppia. Suu Kyi, infatti, dopo la morte dell’amato padre Aung San - vice premier del governo birmano alla fine degli anniQuaranta, promotore dell’indipendenza - andrà a studiare filosofia e scienze economiche prima in Inghilterra e poi negli Usa dove conosce il futuro marito, studioso di cultura tibetana, Michael Aris. All’inizio di The Ladies è lì che la troviamo, nel suo appartamento di New York, dove vive con il marito e i due figli, Alexander e Kim. Le prime rivolte popolari a Rangoon e il ricovero della madre costringono Suu Kyi a tornare in Birmania, da dove non avrà più libertà di movimento. Se infatti dovesse decidere di lasciare il paese per riunirsi a marito e figli, non potrebbe più rientrare in Birmania, dove un intero popolo la reclama e la venera come grande leader democratica. Di fronte alla scelta tra il bene del paese e quello della sua famiglia, Suu Kyi- supportata sempre da marito e figli - deciderà a favore della Birmania, in nome dei valori del padre e delle migliaia di vittime del regime militare. Luc Besson, autore amato dal pubblico e meno dalla critica, dopo i primitentennamenti, sposa in pieno l’idea di Michelle Yeoh di fare un film-elegia, una sorta di altare in 35mm alla donna che sacrificò tutto per il bene del suo paese, all’eroina che chiese al mondo di «usare la vostra libertà per aiutarci ad ottenere la nostra», alla madre e moglie amatissima che rinunciò ai beni più preziosi del suo cuore, per dare una speranza agli altri. Così preciso, maniacale, nel suo profilo, Luc Besson, da costringerci a vedere e rivedere le stesse scene una decina di volte, lacrime baci e abbracci ad ogni arrivo e partenza dei familiari dal suo carcere forzato, militari cattivi che la spiano e la minacciano ad ogni movimento, primi piani ispirati ad ogni comizio. Convenzionale, didascalico, a tratti quasi ridicolo nella pedissequa consecutio degli eventi e spesso melodrammatico negli effetti emotivi, The Lady ha comunque il pregio di riportare l’attenzione mondiale su una grande combattente, costretta ancora oggi ad una sorta di reclusione politica che non lepermette di essere eletta al governo del suo paese, come l’intero popolo birmano vorrebbe. Iniziato a girare mentre Suu Kyi era ancora agli arresti domiciliari, nemmeno dopo la sua "liberazione" nel novembre del 2010 è stato facile per Besson incontrare la leader birmana e parlarle del film. Quando finalmente l’incontro è avvenuto, il regista è rimasto folgorato dalla gentilezza e dall’umiltà di questa donna: «Mi sembrava di essere di fronte a Gandhi. Da lei ho imparato cosa significano il sacrificio, l’impegno, la passione. Se con The Lady riusciremo a informare e far riflettere dei giovani sul suo messaggio, sulla sua lotta per la democrazia senza l’uso della violenza, avremo ottenuto una grande vittoria-. Roberta Ronconi