Chi abbia memoria del film Gandhi, di Richard Attenborough, quello che più di altri in tempi recenti ha contribuito a creare in occidente un immaginario cinematografico sull'India, ne ricorderà forse la scena iniziale, nella quale il futuro Mahatma, qui giovane avvocato indiano del foro di Londra inviato a fare praticantato in Sudafrica, viene letteralmente afferrato e buttato giù dal treno, dalla carrozza di prima classe nella quale lui, indiano, aveva osato sedersi. È da quel gesto di sopraffazione che in questo racconto tutto comincia, segnando un percorso che di lì a qualche decennio avrebbe portato al crollo dell'impero britannico in quella che l'Inghilterra considerava la sua roccaforte più sicura e prestigiosa. E più avanti si vedrà Gandhi con i suoi seguaci distesi sui binari della ferrovia, a protestare perché il governo conceda il voto agli intoccabili. In treno il Mahatma percorrerà il paese predicando il verbo della resistenzanonviolenta. Se la strada è lo spazio nel quale la libertà simbolicamente comincia, il treno, elemento reale ma anche dell'immaginario, mezzo di trasporto e veicolo di Storia, sta all'India come l'automobile sta all'America. Sarà certo per questo che esso abita la geografia del subcontinente, e al tempo stesso la sua cinematografia e le pagine dei romanzi che la narrativa indiana contemporanea ci ha consegnato numerosi: bersaglio spesso di attentati, anche recenti, che a tutt'oggi nel treno individuano un facile veicolo di strage, ma anche potente elemento simbolico. Famosi in questo senso, i cosiddetti treni-fantasma, che nell'estate del 1947, nelle settimane successive alla Partition, la spartizione tra India e Pakistan, arrivano a destinazione pieni unicamente di cadaveri. Grande Storia, piccole storie Difficile trovare un romanzo che affrontando tematiche legate a quel momento della Storia dell'India, non ne parli. Valgano per tutti, per spessore narrativo, Quel trenoper il Pakistan, di Khushwant Singh, classe 1915 (Marsilio, traduzione di Maria Teresa Marenco); e, per la generazione successiva, La spartizione del cuore, di Bapsi Sidhwa, classe 1942 (Neri Pozza, traduzione di Luciana Pugliese), che dello stesso episodio parla a partire dalla sua esperienza di bambina; questa verrà poi trasposta nel film Earth, di Deepa Mehta, che dell'episodio del treno-fantasma, come già nel romanzo, farà uno dei momenti centrali della narrazione: «È appena arrivato un treno da Gurdaspur... Tutti morti. Massacrati. Tutti mussulmani. Nemmeno una giovane donna tra i morti! Solo due sacchi pieni di seni di donna!...Stavo aspettando sei parenti...da tre giorni...dodici ore al giorno ho aspettato quel treno!». Treni che trasportano la Storia, nel bene e nel male. Quella con la S maiuscola. Al contrario, Il treno di notte, deliziosa raccolta di racconti dell'indiano Ruskin Bond, appena uscito per Donzelli nella bella traduzione di Maria Baiocchi (pp. 246, euro 21.90)non trasporta la grande storia, ma piccole storie individuali. Frammenti di vita. Una vita che ha il respiro poetico di un mondo d'altri tempi, e d'altro tempo. Il tempo lento dei ricordi, di momenti d'amore vissuti o solo sognati, in un'India come ci piacerebbe che fosse - e come certamente anche è. Un mondo fatto di attese, di sguardi, di sorrisi e di incontri fugaci che lasciano intuire più che svelare, ma che della vita dei singoli personaggi costituiscono molto spesso il centro, il momento attorno al quale anni di ricordo si raccolgono e coagulano. Trenta racconti brevi, composti dall'autore in momenti diversi della sua vita, a partire dagli anni Cinquanta, fino all'ultimo, Un amore di tanto tempo fa, scritto mentre la raccolta andava in stampa. Il tutto tenuto insieme dalla costante presenza del treno. Ed è lo stesso Bond, nella «lettera al lettore» che costituisce la prefazione al volume, a spiegarne il perché, quando dice che «nei miei racconti sentimento e avventuratrionfano, spesso associati ai treni. La gente non fa altro che spostarsi in treno e andare in treno dappertutto, ma solo qualche volta succede che due persone si incontrino, che i loro sentieri si incrocino, e anche se presto si dovranno di nuovo separare, le loro vite saranno modificate in qualche indefinibile modo». Ruskin Bond è una figura di narratore piuttosto anomalo secondo i parametri a noi consueti. Quasi sconosciuto in occidente, i suoi testi sono viceversa molto letti in India, e comunemente presenti in ogni biblioteca familiare. Nasce nel 1934 a Kasauli, nell'Himachal Pradesh, da padre inglese e madre indiana. Durante la prima giovinezza trascorre quattro anni a Londra, con la famiglia, ma nel 1955 fa ritorno in India, da solo, per non allontanarsene mai più. Da allora vive a Mussoorie, sugli altipiani himalayani. A diciassette anni esordisce con un romanzo, The Room on the Roof , che nel 1957 gli vale il John Llewellyn Rhys Prize per la narrativa. A questo fa seguitoun secondo, e una raccolta di saggi, ma soprattutto una lunghissima serie di racconti, alcuni dei quali per bambini, la forma narrativa che più gli addice e che, in oltre cinquant'anni di inesausta attività assommano ormai a oltre un centinaio; questi, uniti a raccolte di saggi e di poesia e a cinque romanzi, fanno di Ruskin Bond un autore quantomai prolifico, con oltre ottanta volumi al suo attivo. Via dalla pazza folla Bond non è un autore che sperimenti con il linguaggio, alla Salman Rushdie, per intenderci. Non è un innovatore. Suo è il ritmo lento e sicuro dei grandi narratori dell'Ottocento, con i quali condivide, per l'appunto, l'amore per le singole storie, con una spiccata predilezione per storie d'amore, storie a due. Più spesso intessute di silenzio, con scambi verbali ridotti all'indispensabile. È forse per questo che lo scrittore si trova così a suo agio nella dimensione del racconto, preferibilmente con pochi personaggi, lontana dai grandi affreschi brulicanti diumanità, di facce, di voci, della narrativa indiana più famosa. Nei suoi racconti prevalgono il rumore di sguardi e di pensieri, e una certa dose di solitudine e disincanto. Piuttosto, è l'incrociarsi e lo sfiorarsi delle vite, a interessarlo, in storie che spesso prendono lo spunto da momenti della sua autobiografia. «È una mia debolezza», dichiara, «non ci posso fare niente. Sono uno scrittore fatto così». E davvero si ha la sensazione di carpire momenti di vita passata dell'autore. Che sia lui il bambino che in La donna del binario n.8, aspetta la madre che non si fa vedere e che per non sfigurare davanti ai compagni accetta la complicità di una sconosciuta che presenta come madre. Lui, l'amico del giovane che vende pettini e spazzole in una piccola stazione nel racconto Prossima fermata, Pipalnagar. Lui, il diciottenne protagonista di Il treno di notte a Deoli - che nell' originale inglese dà il titolo alla raccolta - il quale si innamora perdutamente della ragazza che vendecestini di paglia, senza mai avere il coraggio di parlarle. Nutritosi, come tutti gli autori della sua generazione, della grande narrativa inglese otto-novecentesca, Ruskin Bond trova in quella scrittura, in quella lingua, i suoi modelli. Ma è vicino empaticamente a quanti - e sono sempre più numerosi - in India hanno scelto di scrivere nella loro lingua madre, visibilmente affrontando un cammino più arduo e impopolare: «Sono molti - osserva ancora nella prefazione - gli scrittori coraggiosi che oggi scrivono nella propria lingua, sia essa il Bengali, l'Oriya, il Telugu o il Marathi, o dozzine di altre, zappando il proprio orticello in solitudine, senza godere del privilegio di avere alle proprie spalle, agenti, media o il Booker Prize. La ricompensa sarà minuscola, i lettori pochi, ma questo basta a impedire loro di spegnere la luce. Perché sanno bene che la penna ha la forza di sconfiggere la morte. Ed è per questo, caro Lettore, che io mi separo da te con l' augurio che tu sappiaavere tanta saggezza da riuscire ad essere semplice, e tanta ironia da riuscire ad essere felice».da Il Manifesto
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