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La Gioconda dell’Opera di Roma non ha proprio nulla da sorridere, come la più celebrata omonima del Louvre, vuoi per il drammone strappalacrime che le ha costruito addosso Victor Hugo, vuoi per tutti quei topoi del melodramma che ha messo sul pentagramma Amilcare Ponchielli, il compositore, e Arrigo Boito (che s’occulta secondo un vezzo tardo settecentesco in Tobia Gorrio), il giovane scapigliato milanese che verseggiò anche per Verdi e mise tutta la sua poetica in quel fiero “Mefistofele” risposta ardente al “Faust” di Gounod. La Gioconda, bella d’aspetto e di cuore, è una cantante popolare, una posteggiatrice, che, come prescrive la regola del mélo, suscita la passione irrefrenabile di Barnaba, una spia della Serenissima, in quella Venezia, crocevia di popoli e di genti, specialmente orientali, che si prepara alle regate e al tifo giubilante dei giorni di carnevale in un tripudio di maschere, cantanti di strada, giocolieri, danzatori. Malei, la Gioconda, ha ben altro in testa, la mamma cieca da accompagnare a San Marco per la benedizione, il suo Enzo, un marinaio dalmata, che l’ama con la tenerezza di un fratello, senza immaginare che ben altri sono i sentimenti che ispira alla giovane veneziana. C’è gelosia e rancore per la rivale, desiderio di vendetta e poi…C’è già abbastanza per l’eterno gioco d’amore? Non ancora, perché il triangolo ben presto diventa un quadrilatero, quando in scena compare Laura Adorno, moglie di Alvise, uno dei potente capi della Inquisizione, innamorata di Enzo, anzi del principe Enzo Grimaldi di Santafiora, proscritto dalla Repubblica e tornato in patria sotto mentite spoglie. Qui la storia si ingarbuglia, ma la musica riesce a dipanare l’intreccio complicato fino al supremo sacrificio della Gioconda e al ricongiungimento dei due amanti Laura ed Enzo nel brigantino che salpa le sue vele verso la salvezza e la libertà. In mezzo c’è di tutto, persino una morta, solo addormentata, unalocation, come la Giudecca divenuta secondo la visione di Pierluigi Pizzi una sorta di Isola dei Morti di Boëcklin , c’è una Venezia stilizzata in un ponticello ripido e piuttosto angusto che salta la laguna, permettendo un andirivieni di gondole, e ancora scale e ponti che si offrono alle danze scatenate del corpo di ballo del Teatro dell’Opera sulle coreografie di Gheorghe Iancu. La scena con i costumi e la regia pregevole sono, come detto, di Pierluigi Pizzi; in essi il maestro ha utilizzato i segni distintivi di uno stile che nel corso dei decenni è diventato linguaggio poetico: dunque, tanto nero e tanto rosso e solo una pennellata di blu virante al viola per l’abito della Gioconda e quel tocco di bianco per Laura, per la simbologia, più che altro. La Gioconda è un vero grand-opéra con le sue scene significative di ballo, lo sfarzo, le trovate tecniche, le luci. Opera amatissima dal pubblico del mondo intero ( e tuttavia mancava da Roma da venti anni ), celebre per alcune arie,la sognante e notturna “Cielo e Mar” o il possente “Suicidio” e soprattutto per quella “Danza delle Ore”, banco di prova per creatività ed eleganza di coreografi e ballerini. A Roma, Letizia Giuliani sensualissima in una tutina color carne che mostrava, nuda, tutta la bellezza e tonicità del fisico, e Angel Corella, premiatissimo ballerino spagnolo. Roberto Abbado esperto conduttore dei giochi orchestrali dà conto della partitura, alleggerendola di quel ciarpame che ombreggiava il rigo musicale, rendendola in perfetta armonia con la cartapesta dei vecchi allestimenti. Ne viene fuori una lettura asciutta e moderna della partitura. Vocalmente, assai apprezzabile la Laura di Ekaterina Semenchuk, certo la migliore in scena, La Gioconda è Elisabete Matos, di buon livello sia scenico che canoro. Alvise, in sostituzione di Roberto Scandiuzzi, è Carlo Cigni. Aquiles Machado, Enzo, dopo la cura dimagrante che gli ha permesso di eliminare cinquanta chili, lasciandogli il passo trotterellantedel grasso divenuto magro, ha mantenuti un bel colore e una perfetta intonazione ma non ha più quello squillo purissimo che ne aveva fatto un artista di levatura internazionale, rendendo indimenticabili alcune sue interpretazione, come quella del poeta nei Contes d’Hoffmann. Barnaba, lo spione, è ben reso da Claudio Sgura. Non eccelsa Elisabetta Fiorillo nel ruolo della cieca.Franzina Ancona
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