Con Trovatore, secondo tappa del Trittico Popolare di Verdi, di scena al Teatro Alighieri di Ravenna, Cristina Mazzavillani Muti ha decretato il tramonto definitivo della cartapesta o dei siparietti dipinti di ottocentesco ricordo, lei, una sorta di Caronte che traghetta l’opera verso i secoli futuri, ha posto solo il punto fermo di una scena con immagine in bianco e nero, scarnificata, altra, una sollecitazione per il pubblico accorso (pubblico da tutto esaurito, come si conviene a queste terre romagnole che conoscono e praticano la doppia cultura del lavoro e del divertimento). A questo pubblico si chiede una partecipazione sgombra da pregiudizi, una capacità di immergersi nello spettacolo che gli viene proposto e gustarne le “invenzioni”. Perché, in quest’opera dove l’amore e la morte vanno a braccetto, dove si parla di zingare e di malefici che terrorizzano nerboruti uomini d’armi, c’è la manipolazione genetica di vecchie archeologie industrialiche il lavorio della ruggine e del tempo ha ricoperto di una patina nuova, fino a trasformarle in un paesaggio irsuto che ha la forza di un incubo, irreale e iperrealista ad un tempo. Ecco dunque un vecchio silos raddoppiato che diventa cattedrale, nave da guerra o, più propriamente, quella astronave che è protagonista del capolavoro di Stanley Kubrick “Odissea nello spazio”. Durante la sua lenta ascensione verso gli spazi profondi, il suono orchestrale trovato dal direttore Nicola Paszkowski, diradato dalla spazializzazione e da un uso assai proprio dei microfoni, si fa soffice, rarefatto fino ad assumere valenze quasi oniriche. Certamente è la tridimensionalità la cifra espressiva più evidente di questo allestimento nato nel 2003 e poi ripreso ancora nel 2010 e ritoccato con pochissime aggiunte oggi. Delle tre opere, la spazialità si fa notare specialmente in questo Trovatore tecnologico, con Leonora e la sua ancella che entrano ed escono fra colonne fotografate ( splendido lavorodi rielaborazione delle immagini scattate da Enrico Fedrigoli ), interagendo con spazi virtuali, onirici. Non la Biscaglia, dunque, non l’Aragona, tanto meno un palcoscenico di teatro ma un luogo/non luogo di morte architetture industriali che l’abbandono ha deprivato di senso e che proprio per questo possono albergare qualsivoglia topos dello spettacolo, in una logica della metamorfosi e della trasformazione che ricorda la tecnica pittorica delle grottesche. Bellissimo il trascolorare di due paesaggi urbani, casupole basse ch si ergono, si raddoppiano elevandosi fino alle dimensioni di un castello illuminato mentre Ferrando narra e muove la fiaccola accesa ai fuochi del bivacco rievocando il rogo che aveva bruciato la strega e una serie di lucette d’improvviso svelano il palcoscenico e diradano la nebbia del tempo, quello passato degli atroci fatti narrati e quello del drammatico presente. Il canto degli zingari “ Chi del gitano”, con i colpi di maglio che accompagnano il lavoro diramai dei nomadi, spazializzato, immerge in una atmosfera rotondeggiante, doppiamente raccontata in “stride la vampa” con lo sfondo di un grosso cilindro rugginoso. E proprio allora, si disegna una croce obliqua nel cielo, coperta poi dalle nuvole. Spazialità di luce e di suono: si accende bianca e fredda la luce sulla zingara Azucena e la sua voce cupa e lamentosa, in scena con Manrico inondato di un bellissimo e caldo color ocra, mentre la sua voce ha il timbro limpido e possente del tenore verdiano, quando rassicura la madre. Solo in due momenti dello spettacolo l’ossimoro bianco e nero delle scene si colora: quando Manrico è nella cripta dove può stringere finalmente fra le braccia l’amata e quando si appresta a intonare “Di quella pira” tutto intorno diventa rosso, con facile riferimento alla rabbia, all’odio e allo spirito combattivo infiammato dalla notizia della prigionia di Azucena. Con un coup de- théâtre, a questo punto due file di riflettori calano sul palcoscenico a mo’ disipario e rivolti al pubblico vengono a sottolineare la violenza del do di petto del tenore. Il secondo elemento distintivo di questo Trovatore è il senso incombente della notte. Il notturno d’altronde, assieme ai pallori di un’alba perlacea racconta tutta l’opera. E’ protagonista quando Leonora è raccolta in preghiera fra le mura protettive di un convento e l’abbraccio delle monache. O quando il canto sospeso delle religiose si alza bianco a mezz’aria immoto come certe immagini delle splendide cattedrali ravennati con i misteriosi mosaici bizantini. Leonora ( trepidante e virginale Anna Kasyan dalla voce morbida e smagliante), mentre tenta di salvare il suo uomo dalla forca consuma quei momenti febbrili in cui dovrà scegliere il sacrificio fisico vagando con piccoli passi incerti dei suoi piedi nudi in un grigio denso di immobili paludi coperte da una vegetazione trappola fangosa. Altro carattere distintivo è la scelta di leggere l’opera secondo i tracciati dei sentimenti estremi cheracconta, che ruotano attorno al concetto di amore, vissuto come assoluto, come archetipo: l’amore di due giovani uomini forti e valorosi per una stessa donna. L’uno, il Conte di Luna ( Alessandro Luongo), potente uomo d’armi, innamorato della bella Leonora, dama di corte, che ama riamata l’altro fatale protagonista, Manrico, (Luciano Ganci), zingaro e menestrello, alla testa a sua volta di un gruppo di armati. Poi c’è l’amore filiale/materno della gitana Azucena ( una delirante Anna Malavasi, vividamente partecipe della vicenda), per la madre condotta al rogo con l’accusa di stregoneria, per il figlio, quel figlio che ha lanciato tra le fiamme della pira dove si inceneriva la condannata, per errore, fatale e crudele. E poi c’è il linguaggio principe dell’amore, quale si parlava ancora ai tempi di Giuseppe Verdi, ovvero il senso del dovere e dell’onore. Sfrondando la vicenda dell’inessenziale, Cristina Muti ha scelto di porre su un piano secondario il coro, spesso nascosto dietrosipari velati, e solo marginalmente chiamato alla ribalta. Il coro dunque, assume come una funzione orchestrale, diventa una piattaforma sulla quale si erpicano con la forza di statue i personaggi principali con il carico di significazione originaria. Così depurata l’opera può esprimere tutta la carica di visionarietà, inserirsi in una realtà senza storia, senza geografie. E appropriarsi dei suoi referenti più intuitivi, disseminati dalla regista qua e là come un percorso che fa riferimento alla cultura dello spettatore. E’ intuibile che per ciò stesso essi diventino una sua scoperta che delizia e suscita un interesse più profondo. Quando il Conte di Luna apprende che il rivale che ha fatto uccidere era il fratello rapito dalla zingara in tenera età ne raccoglie la spoglia e la sorregge fra le braccia come la più famosa delle Pietà di Michelangelo, quella vaticana. Questo Trovatore ha avuto anche la chance di mettere a confronto due cantanti Luciano Ganci, Manrico, e Alessandro Luongo,Il Conte di Luna, oltre che molto bravi e appassionati, vocalmente abilissimi e assai prestanti nel fisico. Nulla accomuna Rigoletto, Trovatore e Traviata, il celebrato Trittico Popolare di Giuseppe Verdi, se non quei sentimenti universali che sono della letteratura, del dramma teatrale, come del mélo, amore, vendetta, odio, rivalità fra maschi vogliosi della stessa donna, militanze politiche differenti, l’infelice sorte delle ragazze perdute, il maschio ricco e potente dall’appetito sessuale insaziabile, e ancora mille e mille rivoli che si raccolgono nel grande fiume della vita e delle sue infinite modulazioni. Eppure Cristina Mazzavillani Muti ha saputo trovare e mettere a punto una cifra che li rende plausibili. Intanto bisogna sottolineare che ci voleva un gran balzo d’artista per superare le difficoltà insite in un progetto così ambizioso e la modestia dell’artigiano per condurlo alla fine con esito così felice. Ma chi conosce la ferrea volontà, il vigore, lo spiritocombattivo e la dolcezza di chi è adusa ad ottenere quasi senza chiedere di Cristina Mazzavillani Muti, chi ne apprezza la fantasia e la capacità di proiettarsi verso mete non ancora sondate, chi sa riconoscere nel rigore e nella coerenza dell’interprete le qualità segrete, visionarie di una appassionata intenditrice come lei, non troverà poi così straordinario che, cogliendo tutti di sorpresa, abbia anticipato a questo scorcio del 2012 l’inizio dei festeggiamenti che il mondo intero tributerà l’anno prossimo a Giuseppe Verdi che, assieme a Richard Wagner, sarà ricordato in occasione del bicentenario della nascita. Lo ha fatto con l’ambizione e il coraggio che indossa come una veste: tre opere in tre giorni, impegno che la accomuna alle maestranze e al team dei suoi collaboratori fissi, una squadra d’assalto compattamente proiettata verso il successo, dal light designer Vincent Longuemare, al visual director Paolo Micciché, alle bellissime immagini fotografiche di Enrico Fedrigoli, alcuratore della spazializzazione di suoni, Alvise Vidolin, all’allestimento scenico di Roberto Mazzavillani, ai costumi di Alessandro Lai. Ottima la prova del direttore Nicola Paszkowski, che con piglio deciso, lasciando a momenti di silenzio inusuali il tempo quasi di metabolizzare la ridda di emozioni che la musica di Verdi suscita, ha ottenuto ottimi risultati dalla Orchestra Giovanile Luigi Cherubini, creatura di Riccardo Muti. Ben istruito da Corrado Casati il Coro del Teatro Municipale di Piacenza. Ultima tappa di questa Kermesse con la stessa orchestra, direzione e maestranze tecniche e artistiche, è una Traviata soave all’insegna della leggerezza, nel riflesso di specchi bruni che si muovono dall’alto verso il basso, a raccogliere lei, Violetta, una commovente Monica Tarone, creatura biancovestita, efebica, dolcissima, astratta, dai capelli sciolti sulle spalle, il viso incorniciato da occhi bistrati, sempre inquadrata da una luce bianca, abbagliante, memoria in carne viva delleingiustizie patite da lei e da tutte le traviate del mondo, senza nome, senza confini cronologici e senza nazionalità, tutte le ragazze di vita. Ingiustizia per quella tisi che uccide giovani, per la solitudine nel “popoloso deserto che appellano Parigi”, per la violenza subita (una scena sconvolgente per la verità con cui è rappresentata una virago che la colpisce a schiaffi e pugni per iniziarla al piacere, mentre attorno indifferenti giovani maschi aspettano di saggiarne le virtù apprese). Violetta paventa l’amore, suscitatore di tormenti e impossibile da coniugare in una dimensione lecita nella gaia Parigi, città di vizi e perversioni, dove gli onesti e benpensanti provinciali, rigidi e integerrimi padri di famiglia vengono a sfogare libidini e fantasie erotiche inammissibili nell’ambito familiare con le donne perdute poi, sazi di orge e di peccato, possono tornare alle devote mogli, alle angeliche figlie con più severità e intransigenza. La stessa del vecchio Germont, SimonePiazzola, al quale Cristina Mazzavillani Muti ha regalato un tocco di ambiguità in più: perché è pur sempre un uomo ancor giovane e quella fanciulla vibrante d’amore non scuote in lui solo corde paterne. Piazzola ha voce piena, una emissione nobile come si conviene al personaggio, qui un ottuso e ipocrita serpente che armato di perbenismo e ricatti morali costringe Violetta ad abbandonare Alfredo e ad assumere su di sé ogni colpa e responsabilità di un ritorno alla vita di mondaine, salvo poi a cercare il suo perdono un momento prima di vederle esalare l’ultimo respiro. Questa Violetta tenerissima, che fende il palcoscenico con i suoi piccoli passi nudi, che ha voce inzuppata nel miele, è capace di sostenere le aspre colorature del primo atto, la dolcezza e la morbidezza di accenti del secondo e la profondità tormentata e dolente del finale, dove commuove specialmente per il profluvio di idee registiche. Immersa in un velo lunghissimo e opalescente che l’avvolge come le spire di unserpente, con quelle mute figure che l’abbrancano che sembrano rievocare il gruppo marmoreo del Laocoonte, Violetta tra le braccia dell’amante ritrovato si avvia all’apoteosi finale, la morte che tutto riscatta, quella morte che le permette di consegnare dopo il suo apprentissage Alfredo ad un futuro di marito di vergine purissima, il vecchio Germont al suo ruolo di buon padre, quella morte che la inserisce nel mosaico senza nome delle mille traviate di tutti i tempi. Franzina Ancona
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