Anche il Pd dice addio all’acqua pubblica
Cosa resta a quattro anni dal referendum
 











La borsa o la democrazia. Il debito o il voto popolare. Lo sfondo politico del duello fra Grecia e Bruxelles si ripropone in piccolo fra rubinetti e acquedotti d’Italia. Diversissime la scala e le conseguenze, certo, ma non  dissimile il dilemma: conta più il bilancio o la partecipazione democratica? È meglio un comune che rispetta la volontà di un referendum aggravandosi però di debiti o un comune che taglia le spese privatizzando i servizi? È possibile che le amministrazioni locali siano capaci di gestire la cosa pubblica in modo efficiente, o bisogna arrendersi a pensare che tutte le municipalizzate siano solo carrozzoni di sprechi da chiudere al più presto?
Aut aut dalle conseguenze concrete. Reggio Emilia, la Campania, e le posizioni del governo segnano il quarto anniversario del Referendum sull’acqua sancendo un’ennesima sconfitta per i ventisei milioni di elettori che espressero la loro opinione nel 2011. Perché se è vero che imunicipi non sono stati costretti a privatizzare, è altrettanto vero che le ultime manovre del consiglio dei ministri premiano i sindaci che fanno cassa dismettendo le società partecipate a favore di agglomerati quotati in borsa. Si apre così la nuova fase delle battaglie idriche. In cui più delle scelte politiche valgono le “ragioni di bilancio". Scavalcando anche le convinzioni più assodate.
LA FONTE DI REGGIO
L’anniversario del referendum è imploso davanti alle porte della rossa Reggio Emilia. La città dell’attuale ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio era stata fra le prime ad abbracciare la causa referendaria, seguendo l’onda dei 250mila abitanti della provincia che avevano detto sì alla consultazione del 2011. Scaduto il contratto con l’affidataria Iren due anni fa, il Comune si era preso una “pausa di riflessione”: fino ad oggi ha prorogato il servizio alla multiutility commissionando studi e ricerche per capire se fosse possibile ri-pubblicizzareil servizio idrico, come voleva il voto popolare.
La risposta degli esperti è stata unanime: sì. Lo stesso attuale sindaco, Luca Vecchi, in campagna elettorale si era sbilanciato a favore dell’acqua “bene comune”. Ma ora la giunta si appresta a voltare le spalle alla prospettiva. «Per noi Reggio Emilia era un modello: negli ultimi anni abbiamo partecipato a consultazioni democratiche, dibattiti, piani economici seri e condivisi», racconta Paolo del Forum nazionale per l’acqua pubblica: «Avevamo la certezza che saremmo andati verso la fine della gestione privata: la fattibilità era stata  confermata da più consulenti. Adesso, invece, buttano via tutto questo». L’ipotesi “ri-pubblicizzazione” infatti sarebbe ormai tramontata nonostante le proteste dei referendari . La scelta definitiva arriverà solo a settembre, e il dibattito consiliare è in corso, ma la giunta vorrebbe piuttosto una gara fra soggetti di mercato o al massimo una società a capitale misto.
«La nostra è unasemplice valutazione di concretezza e, credo, di buona amministrazione», risponde Francesco Notari, assessore al bilancio di Reggio Emilia: «Non penso che i cittadini preferiscano una nuova municipalizzata piena di debiti e dal futuro incerto, piuttosto che il servizio che c’è attualmente, e che funziona bene, a costi standard». I debiti a cui si riferisce l’assessore sono quelli di cui il Comune dovrebbe farsi carico per “comprare” da Iren gli investimenti già effettuati e non ancora ammortizzati nelle bollette. La stima è di 190 milioni di euro ancora da saldare, a cui andrebbero tolti però 88 milioni di crediti che la stessa città vanta nei confronti della s.p.a.
Insomma, Reggio Emilia dovrebbe sganciare subito 102 milioni di euro a Iren, chiedendo un prestito alle banche o alla Cassa Depositi e Prestiti. «È vero, le banche si erano dette disponibili. Ed è vero, il servizio idrico è una certezza: a parte i casi di insolvenza o eventuali emergenze, produce un reddito assicurato ecostante», ammette l’assessore: «Ma ciò non toglie che ci prenderemmo il peso di milioni di debiti. Senza per questo garantire un servizio migliore».
I PASSI INDIETRO
Per il Forum nazionale è un ritornello questo che si sente anche nel resto d’Italia, dal Lazio a Vicenza: considerazioni economiche scavalcano la “pur forse magari” volontà di cambiare lo status quo a favore della titolarità pubblica della gestione dell’acqua, com’era nello spirito del referendum. Il #cambioverso, dicono gli attivisti, arriva direttamente dal governo, che con una serie di interventi, dalla Legge di Stabilità allo Sblocca Italia, fino alla riforma Madia ancora in discussione, si sarebbe espresso esplicitamente a favore delle grandi multiutility.
Un esempio? I proventi che i sindaci riescono a incassare vendendo quote pubbliche di partecipate a favore dei privati, sono esenti dalla spending review. Sono soldi freschi, da spendere. «Queste posizioni hanno bloccato leri-pubblicizzazioni anche là dove erano state avviate, come a Vicenza», continua Paolo: «Siamo di fronte a una massima italiana: cambiare tutto, per non cambiare niente». I referendari non si fermano però, e proseguono la moral suasion verso gli amministratori, citando come caso simbolo sempre Napoli, che ha effettivamente rimesso in mano comunale la gestione dell’acqua.
Una posizione su cui è piovuto da poco anche il sostegno del cardinale Crescenzio Sepe, che in una lettera pastorale dedicata al tema della sete e ispirata dall’Enciclica di Papa Francesco sottolinea alcuni aspetti specifici della questione. «La corsa ad accaparrarsi le fonti idriche potabili caratterizzerà probabilmente gli scenari delle battaglie del domani», scrive l’arcivescovo di Napoli: «Già oggi molti vorrebbero privatizzarla, scorgendovi un potente fattore di speculazione economica. In questo senso, la trasformazione dell’acqua – da dono per tutti a merce – è uno dei principali motivi diingiustizia».
CHIAROSCURI CAMPANI
Se il capoluogo brilla però, al quarto anniversario del referendum, non è così per il resto della Campania. In particolare, per l’area del Sarnese-Vesuviano, dove il servizio idrico è gestito da Gori, una controllata di Acea. A tutti i residenti della zona, infatti, la Gori aveva inviato centinaia di bollette per recuperare 120 milioni di euro che le sarebbero dovuti essere riconosciuti - a posteriori - in base alle nuove tariffe standard nazionali. A firmare il via libera alla riscossione era stato l’allora presidente dell’Ente d’ambito, Carlo Sarro, ancora adesso, dopo diverse proroghe, commissario della stessa istituzione (che non è stata sciolta come chiede la legge).
Contro le riscossioni di Gori si sono scatenati però i ricorsi dei residenti ai tribunali amministrativi ed è stata avviato pure un “procedimento sanzionatorio” dall’Autorità garante per l’energia (le indagini sono ancora in corso). Nel frattempo anche Sarrorischia di scivolare dopo anni di indiscusso potere sugli acquedotti vesuviani: su segnalazione di un deputato del Movimento 5 Stelle, Luigi Gallo, si è mossa infatti l’Autorità anti-corruzione di Raffaele Cantone, che ha stabilità l’incompatibilità fra il ruolo di senatore (Forza Italia) e quello di presidente dell’ente pubblico. Da cui ora dovrà essere rimosso. Francesca Sironi,l’espresso









   
 



 
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